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Ada Negri. Il tremore dell’attesa

adanegri [1]

 

Accostarsi alla poesia di Ada Negri (1870-1945) significa sostare in un pertugio di stupore che ha provato, in quanto «è fondamentale che tutto è esistenzialmente unito, cosicchè, politicamente, segue che tutto è in pace, perché la vita sociale è la pace, e anche il male è assunto in questa unità» (Luigi Giussani).

L’energia dell’esistenza, che proclama il suo sì dinanzi alla vita, trova, nell’espressione, la compiutezza sofferta e amante di un’adesione a un impeto di amore e, come scrive Luigi Giussani «l’intuizione, la scoperta, la Grazia di scoprire che esiste questo fatto prodigioso per cui un essere umano può amare senza pensare di essere amato, e che questo esige un pozzo infinito all’origine».

È stata molto apprezzata in vita (Sofia Bisi Albini, recensendo la sua raccolta Fatalità su “Il Corriere della Sera” parlò di «poesia impressionistica», nel 1894 le veniva assegnato il premio  Giannina Milly, il primo di tanti riconoscimenti, susseguiti dalla medaglia d’oro del Ministero dell’educazione (1938) e dalla nomina ad accademica d’Italia (1940), prima ed unica donna ad ottenere un simile riconoscimento, mentre Mommsen confidava a Ojetti di conoscere nella letteratura contemporanea solo lei e Carducci), mentre successivamente dimenticata dalla critica, la «maestrina di Motta Visconti» ha patito il suo sguardo fecondo e la semplicità, da molti ritenuta scolastica, della suo gesto, che come affermava Arnoldo Mondadori, è tutt’altro che un pedante esercizio, ma un modo di stare davanti al mondo.

L’influenza di Carducci, poi di D’Annunzio, di Pascoli (il socialismo umanitario di entrambi sfocerà in percorsi diversi e netti) e di Whitman, rappresentano solo la traccia originaria che non sente l’approdo verso il nichilismo gnoseologico, bensì la coscienza dell’eterno che si impone, come il dono di una scoperta che si traduce nell’attesa di una pienezza d’amore: «Io t’aspettavo fin dal giorno in cui / di fiorire m’accorsi all’improvviso, / primula di marzo. E venne uno, con viso / dolce. Ma io mi dissi: «Non è lui». / Pioggia e sol, spine e rose, fieno e paglia / m’apportarono gli anni. Anche l’amore. / Non te!… Qualcun ti assomigliò, che il cuore / aggrovigliar mi seppe in gemmea maglia: / ed io mi persi a capofitto, giù, / col desiderio folle d’annientarmi / tra forti braccia che potean spezzarmi / come la creta. – Ma non eri tu».

La segreta speranza di un amore condiviso e pieno tenta la strada di una intuizione che necessita di tempo e spazio: «Ma forse / di là, nell’ombra ove uno spirito tocca / l’altro in silenzio, io troverò la bocca / che solo in sogno la mia bocca morse».

Il temperamento ribelle, nato da una realtà concreta di un popolo sofferente, conosciuto sin da bambina, che si era impregnato della compassione per il grande dolore e la grande fatica nella madre operaia e vedova nella filanda, e nella vicinanza conflittuale con il fratello Nani, sembra ammantarsi della missione sociale della poesia, sin dai suoi inizi vicina ai circoli anarchici e socialisti. Più tardi, considerò questo periodo un abbaglio.

Commenta Davide Rondoni: «L’abbaglio riguardò l’uso della poesia, non la passione per la giustizia. Il suo «socialismo» si rivelò qual era, un umanesimo cristiano, una compassione e non ideologia: comunque rimase immutata la caratteristica di un’arte della parola che non nasce da un’intuizione pura, ma dalle provocazioni e dagli scoscendimenti della realtà circostante».

Il desiderio di infinito, di pienezza e di senso, di capire la prospettiva umana, l’abisso di vita è la vera statura dell’uomo: «Il dono eccelso che di giorno in giorno / e d’anno in anno da te attesi, o vita / (e per esso, lo sai, mi fu dolcezza / anche il pianto), non venne: ancor non venne. Ad ogni alba che spunta io dico: “È oggi”: ad ogni giorno che tramonta io dico: “Sarà domani”».

E se in Fatalità l’accento sulla condizione operaia e sulla sofferenza che ne deriva, contiene l’istanza sociale e umanitaria che caratterizza la sua posizione, sia come ribellione alla sventura e  sia come distanza dalla borghesia, la sua «indomita fiamma» prolifica e vitale, sebbene segnata dal dolore della frattura e della separazione, dall’amore sfortunato e dal matrimonio sbagliato (Tempeste), si afferma nella necessità di un desiderio ricolmo che si sottragga da ogni inganno possibile.

Le raccolte che compone negli anni tra il 1910 e il 1914, Dal profondo e Esilio, si ripiegano nella «nostalgia e un diffuso clima di pianto testimoniano di un difficile adattamento della ex-vergine rossa a una vita che non risponde a come se l’era immaginata. In questi anni, perciò, si fa più urgente «comprendere» la vita, afferrarne il significato» (Davide Rondoni).

Il Libro di Mara (1919) compone un lucido, teso e appassionato scavo epifanico nel magma affettivo, che sente imponente e ingombrante, in un’altezza di dense sillabe: «Entrasti improvviso, lasciando spalancata la porta sui campi […] / Così compatto il silenzio, che le parole non dette si scolpiron / solenni nell’aria […]». Ne Il muro, la soluzione di un possibile passo, oltre il limite, non viene mai meno, così come la tensione all’incontro che «si scande a martello sul battito / delle mie arterie». Se il volume Stella mattutina (1921), in cui la poetessa scandisce, appunto, la sua storia d’anima e la sua origine interiore, in una sorta di «verismo parnassiano» (Daniele Mattalia), i Canti dell’isola (1924), scritti dopo un soggiorno a Capri, contengono la linfa transitoria di una trasfigurazione, e le parole, come ha notato Romagnoli, divengono «vibrazioni di musica e di luce».

Però, la sua anima originaria dimora nelle ancestrali radici della Lombardia, e ad esse torna con Vespertina (1930) e Il dono (1936), che portano in grembo la forza semplice del senso religioso: è una preghiera al Signore, sgorgata da un cuore colmo di pace, poiché il senso del significato ultimo permette di guardare alla morte senza sfioramento autunnale e cogliere, nel tramonto dolce della vita, «la clemenza d’una mite aurora». La legge profonda dell’esistenza, come avviene in Atto d’amore, genera una tensione religiosa, intimamente mistica, che unisce l’incontro dell’anima con il cosmo: «Non seppi dirti quant’io t’amo, Dio / nel quale credo, Dio che sei la vita / vivere, e quella già vissuta e quella / ch’è da viver più oltre: oltre i confini / dei mondi, e dove non esiste il tempo». Ogni atto di vita, poiché dato, è amore puro e plasmato come amore senza ritorno e la libera e certa adesione al Mistero genera la gioia, la mendicanza al «Tu» misterioso che ha assunto sembianze umane e compone l’identità dell’io: «A Te solo non posso / celarmi. Oscuro smisurato è il fondo / dell’essere. Non v’ha pupilla umana, / s’io lo nascondo, che a scrutarlo arrivi. […] Signor che tutto sai, come nell’ore / in cui più sento che di me non fugge / al tuo giudizio un palpito, un pensiero, / un affanno, un rimorso – e la mortale / mia verità riflessa è nello specchio / della tua luce eterna».

Commenta Luigi Giussani: «La grande unità, qualunque sia la partenza di Ada Negri, viene dall’aver scoperto che c’è un amore, che è possibile un amore senza ritorno, che l’impossibile diviene possibile. C’è dunque l’impossibile,e  c’è la realtà che lo raccoglie, che lo accoglie, fatta della stessa fattura: tutto è amore, è atto d’amore».

La giovinezza che dà origine alla sua parabola è la dimensione di una sorpresa, che permane nella sigla di un fondale che scopre che l’eterno è la traccia del tempo e, nella vita, la possibile proposta di una giovinezza incorruttibile: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo / all’essere. Sei tu, ma un’altra sei: / senza fronda né fior, senza il lucente / riso che avevi al tempo che non torna, / senza quel canto. Un’altra sei, più bella […] Ami, e non pensi esser amata: ad ogni / fiore che sboccia o frutto che rosseggia / o pargolo che nasce, al Dio dei campi / e delle stirpi rendi grazie in cuore. / Anno per anno, entro di te, mutasti / volto e sostanza. Ogni dolor più salda / ti rese: ad ogni traccia del passaggio / dei giorni, una tua linfa occulta e verde / opponesti a riparo. Or guardi al Lume / che non inganna: nel suo specchio miri / la durabile vita. E sei rimasta / come un’età che non ha nome: umana / fra le umane miserie, e pur vivente / di Dio soltanto e solo in Lui felice. / O giovinezza senza tempo, o sempre / rinnovata speranza, io ti commetto / a color che verranno: – infin che in terra / torni a fiorir la primavera, e in cielo / nascano le stelle quand’è spento il sole». Ecco la domanda stupita che intuisce l’origine di un pozzo infinito. Pescare lì, in ciò sprona ad andare e cogliere l’oltre, il significato, la ragione, la provenienza di ciò che vediamo e che accade. Allora l’atto conoscitivo diverrà impeto, movimento, propensione verso il Mistero, che si rivela come solenne densità.