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L’ “assenza continua” di Italo Svevo

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<<Che anche qui m’abbia impedito quella mia certa assenza continua ch’è il mio destino […] se non ci fosse quella mia continua assenza che m’induce a pensare all’Italia quando sono in Inghilterra e all’Inghilterra quando sono in Italia>>.  Si potrebbe usare questa epigrafe tratta dal Soggiorno londinese all’opera di Italo Svevo. Non solo per quella impossibilità di vivere il presente, ma per la sua inafferrabilità e quindi non fruibilità. L’uomo non può vivere perché sembra non adeguatamente collocato, per così dire, dentro la sua esistenza: un inetto, appunto: <<L’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale>>.

La sua stessa esistenza è determinata da una profonda assenza quindi, ma di cosa? Del significato. Lo stesso sperdimento abissale che coglie Zeno Cosini, protagonista di uno dei suoi romanzi più efficacemente aggrappati a questa incontrovertibile ‘definitività’, a questa patologia di ordine conoscitivo. Anche Svevo, come Kafka, è senza patria ossia senza madre. Nel racconto omonimo, Curra, pulcino alla ricerca della sua chioccia si imbatte in un pollaio in una figura che scambia per la sua madre originaria, che però lo aggredisce, riuscendo a fuggire disperato. Da adulto osserverà il suo atroce destino attonito, immerso nella sua “malattia”.

Scrive Svevo a Valerio Jahier: <<E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità ciò che essa ha di meglio?>>, parole simili alla’ultima pagina de La coscienza di Zeno: <<la vita somiglia un poco alla malattia…A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Qualunque sforzo di darci la salute è vano>>. La sua malattia è innanzitutto malattia del pensiero, da un lato perché si isola dall’esperienza, dall’altro perché la sua genesi non ha quel punto focale, quel centro.

Essa evidenzia una condizione drammatica, se non tragica perché non permette l’incontro con il reale e spesso, come il protagonista di Senilità, Emilio Brentani un ripiegarsi in se stessa. L’inetto, pertanto, è un io senza pensiero, senza giudizio: <<Il mio pensiero mi appare isolato da me>>. I personaggi sveviani sono imbrigliati in una non-visione, guardano ma non vedono e le uniche due misure possibili, secondo Svevo, sono l’analisi, che permette di sciogliere la realtà e il sogno, in cui si offre la sintesi, come testimonia Angiolina in Senilità e uno dei momenti de La storia del mio matrimonio. Eugenio Montale nel ’25 scriveva: <<Caratteritica essenziale dell’opera di Italo Svevo è il suo ardore di verità umana, il suo desiderio di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, nella zona sotterranea e oscura della coscienza>>.

Dentro questo motore, come i “cinquantaquattro muscoli” che sorprendono Zeno dinanzi al suo claudicante compagno di scuola Tullio, si gioca la partita tra il dato della realtà e l’esperienza, nella schizofrenica patologia conoscitiva dei particolari e lo smarrimento della somma dei fattori che costituiscono le cose e infine nello scontro tra volontà.

L’insoddisfazione di Svevo permane nell’impossibilità di cogliere la grandezza dell’io come dato a vantaggio di un io che, per così dire, si produce da sé.

Alfonso, Emilio, Zeno sono determinati da una disillusione da una noluntas. E non è un caso che Schopenhauer pervada le sue pagine: se l’io non sa ciò che vuole, non vuole, e il volere risulta un meccanismo di istinti, di “vogliuzze”: <<[…] veramente Zeno inciampa nelle cose. Ma fu già riconosciuto che abbandonando Zeno dopo di averlo visto muoversi si ha l’impressione evidente del carattere effimero e inconsistente della nostra volontà e dei nostri desiderii. Ed è il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura della propria preferenza per ottenere il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti>>.

Scrive Mario Apollonio, e poi sulla sua falsariga Geno Pampaloni che parlava di “famiglia ebraico cristiana”: ”L’altro da sé che i personaggi sveviani cercano per fondarvi una qualche consistenza di vita, non respinge l’eredità secolare di un colloquio ebraico col Dio dei viventi”.

Questo evento decisivo accade nell’incontro-scontro di Zeno con il padre malato, uno schiaffo che ridesta uno sguardo appannato e irrisorio, che non riesce a penetrare la profondità del vero, un invito a guardare, un richiamo alla realtà stessa e in ciò che appare: le Pleiadi: <<Durante la notte che seguì, ebbi per l’ultima volta il terrore di veder risorgere quella coscienza ch’io tanto temevo. Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso. (…)  Cercai di scoprire il punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi pareva guardasse le Pleiadi. (…) Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto: “ Guarda! Guarda!” mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me: “Hai visto? Hai visto?”Tentò di ritornare alle stelle, ma non potè: si abbandonò esausto sullo schienale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese né ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre>>. La comunicazione si riempie del gesto, teso al Destino. Ma Zeno non capisce quel senso, che tocca le attese e gli ‘attracchi’ dell’essere.