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Attilio Bertolucci e la ferialità della vita

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Attilio Bertolucci (1911-2000) ha attraversato, come ogni poesia autentica, la febbre della vita e l’ha sorpresa con la descrizione dei colori feriali dell’esistenza. Lirica che è stanza di febbre e gioia: <<Lasciami sanguinare sulla strada / sulla polvere sull’antipolvere sull’erba, / il cuore palpitando nel suo ritmo feriale / maschere verdi sulle case i rami>>.

Forse in nessun altro poeta del Novecento, quest’anima stanca e felice costituisce la traccia del suo progetto, il suo dire la vita.

È il gesto di colui che rintraccia tenacemente l’origine della sua casa, con i materiali vaghi e umili del paesaggio, dell’autobiografismo, analizzato compiutamente da Pasolini, e della chiamata delle cose: <<Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato>>.

Il suo dettato poetico è una linfa pittorica che abita la sfasatura del tempo, nei contorni imprecisi della sera sul limite del giorno o il battito dell’ora. La sua “aritmia”.

Il movimento della poesia bertolucciana ha guardato la materia del mondo nei suoi punti chiave: la famiglia, gli spostamenti, la città, in un  bagliore denso e vivissimo.

Scrive Davide Rondoni: La poesia fa luce sul purgatorio (un altro tempo spostato, non definitivo) del vivere. Ma è una luce orizzontale, radente. Non è illuminazione, non chiedete verticalità a Bertolucci, la trascendenza non è il suo habitus.  La sua è una religiosità del tempo, del legame, appunto, tra passato e presente, tra il morto e il vivente. In questo sguardo i trasalimenti sono dati dagli acuti della pena e più raramente dall’incanto. O dal rintoccare dell’uno nell’altra.

<<Non vende che rose / bruna rosa infiammata / ragazza di calza smagliata / che m’ha guardato negli occhi / sino a farli abbassare.>>.

Uno scintillare di istanti, si direbbe,  in cui il loro prolungamento, la loro durata, porta gli oggetti a diventare poesia, rêverie [2] di luce e buio.

Il poemetto La capanna indiana è il poema dell’attesa immersa nel fluire delle stagioni, tracciando proustianamente il senso della memoria, per ritrovare la cifra del proprio destino.

Anche Viaggio d’inverno cerca di trattenere la pulsione e il desiderio di trattenere il fluire degli attimi, nella maturità inquieta, con le sue incisioni e le sue rinunce. Lì si gioca la partita di Bertolucci.

In quella gioia, in quel calore di libertà nasce la meraviglia di una poesia, che nella grazia illuminata delle cose, trova compimento (Sirio), sia attraverso la magia delle figure, sia nei passaggi notturni d’aria e nei prismi di luce.

Il tocco di Bertolucci è un gesto d’amore radente, la gioia di un’epifania che coglie i fuochi a novembre: <<Coglierò per te / L’ultima rosa de giardino, / La rosa bianca che fiorisce/ Nelle prime nebbie. / Le avide api l’hanno visitata/ Sino a ieri, / ma è ancora così dolce / Che fa tremare. / è un ritratto di te a trent’anni, / Un po’ smemorata, come tu sarai allora>>.

Scrive Paolo Lagazzi: Nelle prime raccolte, prioritaria è in Bertolucci l’esigenza di un rapporto liberatorio, gioioso e amoroso col tempo ( nonostante risvolti già chiari d’incertezza): di lasciarlo vibrare in tutte le sue pulsazioni, captandone al volo le faville di luce. La tendenza del poeta alla rêverie [2] è, in primo luogo, questo: una passione degli istanti privilegiati; il bisogno di saggiare la fiammella annidata nel cuore presente e vivo delle cose.

Il suo patto con il tempo è la sospensione, l’incanto, la protezione delle figure. Notò Cesare Garboli come è presente nella poesia bertolucciana, in special modo ne La camera da letto, sempre un linguaggio espiatorio che decodifica il consumarsi delle cose: <<Le corolle vermiglie ombrate in rosa / fiorirono più tardi la stanza, / una qua una là, accordate / alle ultime dell’orto, e il buio, / fuori e dentro, compì un giorno/ non inutile che lascia a chi verrà, / e dormirà e si sveglierà fra questi/ muri, la gioia delle rose e del cielo.>>

L’aria, il cielo, la notte serena e tetra, sono il solco di una vertigine, di una voluta di paesaggio. Il caleidoscopio della stanza rappresenta la tensione che porta la narrazione a divenire poesia, in una lontananza favolosa, in cui la voce narrante fa riposare le ferite del vuoto e dei tormenti in un ‘tu’ di un amore senza riposo.

Egli ha difeso la proprietà dell’umano nella sua poesia, mostrando come il movimento delle cose chieda protezione e custodia.

In una quiete apparente di moto, in uno spazio di verso che ondeggi nel gioco degli spazi, come quelle gaggìe di Parma.