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Beppe Salvia. La privazione dell’assenza.

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“La sua poesia, che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di riprendere contatto con il ‘cuore’ del mondo.”

Scriveva così il grande Andrea Zanzotto riguardo la poesia sofferta (e quindi teneramente viva) di Beppe Salvia, scomparso purtroppo più di vent’anni fa.

L’elemento centrale della sua poesia è l’assenza o meglio la privazione del tempo, che sembra approfondirsi fino alle percezione di una fragile inconsistenza, lontana dalle persone e dalle cose.

Il cuore dell’uomo è il desiderio di felicità, compimento totale e permanente dei desideri costitutivi, delle esigenze della propria umanità.

L’occorrenza continua nel suo verso limpido e sospeso, come oggetto nell’anima, come sacro lavacro di un tempo che non riesce a trovare compimento, isolato nella reclusione del respiro lirico:

(“abbiamo nel cuore un solitario/ amore, nostra vita infinita,/ e negli occhi il cielo per nostro/ vario cammino”). La distanza dalle cose, pur apparentemente incolmabile, non è gergo di un ritiro dalla vita, ma momento di un’aspettativa accorata, nella proiezione del desiderio tra sperdimenti di luci, vicine e lontane, mai spente, vivide nel loro formarsi

Già nella sua raccolta “Estate”, le liriche nascono in un’accorata elegia nostalgica, un punto vero di fuga in cui trovare la vera dimensione di equilibrio tra passato e  presente, esterno e interno, inerzia e divenire. Il luogo poetico, rattrappito nel suo farsi e disfarsi, inizialmente immobile tende pian piano al movimento aperto del mondo, in un unico momento di esperienza stupita (“M’innamoro di cose lontane e vicine,/ lavoro e sono rispettato, infine/ anch’io ho trovato un leggero confine,/ a questo mondo che non si può fuggire./ Forse scopriranno una nuova legge universale, e altre cose e uomini impareremo ad amare.”) oppure (distanti i suoni e, / remota ogni vaghezza delle voci/ giù nella via”). Ed ecco che l’io appare insolitamente chiuso e mai ridotto, fervido d’amore protettivo per sé e per la propria identità, in un momento centellinato, ricolmo di slancio.

Appare un’ eco leopardiana in queste stanze, dove la lontananza esprime il suo canto naturale e si riverbera nella scelta lessicale e versificatoria, accostata anche all’epigramma.

Le immagini sembrano convergere nella loro atmosfera rarefatta (“cieli quieti di pensieri chiari”), allitterante, nominale.

Spesso Salvia ha avuto referenti accostamenti a Umberto Saba, soprattutto nella tenerezza elegiaca, ( viva la via deserta tutta / fiocchi bioccoli/ lanugine di giugno) e a Sandro Penna.

La stoffa dell’esistenza è intrisa di stupore melanconico e allo stesso tempo percorre strade grigie della impossibilità, della chiusura-aperta al dolore che intride le sue lontananze.

La parola lacerata, remota, quasi sibillinamente percepita nell’estrema vaghezza (“Questi nostri
volti vagabondi come musi/ di cani ci somigliano).

Improvvisamente si sente il bisogno di un passato che sia paragone con la propria vita presente, nella giovinezza, simbolo del paragone del cuore della vita, in cui la categoria del possibile e del molteplice disgelava l’innocenza ormai perduta: “ Mi immaginavo mondi tutti / assai/  più lievi e volatili di questo mio”  e  nel rigoglio ansimante della primavera si scorge il sentore dei profumi che l’aria incide “E’ quasi primavera, io dipingo/ già fuori sul terrazzo, tra / odori, / di mari lontani e queste / vicine / piante di odori).

La lontananza e la vicinanza, come precedentemente accennato, vivificano l’esistente nel loro bisogno reciproco e vicendevole, non solo nella loro terminologia affettiva, ma anche nella loro struggente vivezza di colori e suoni, odori e profumi, che finiscono per annullarsi nella vanità annullatrice dell’esistenza: “ Io dipingo / la sera quando i tormenti più / vivi / accendono il cielo e bruciano il cuore,/ e all’alba quando già nulla è la vita”).

Il tema che apre i sentieri dell’iter poetico di Salvia è la solitudine, costretta, imposta, colpita nella sua impersonalità contraffatta: “Imparo da solo / con stenti/ l’errore d’esser solo”, spesso in quel sentiero solitario, qua e là vagabondo, si staglia la pura voce dolce e allo stesso tempo malinconica, di un aggrapparsi spalancato alla vita che non deve ridursi, che non può ridursi al cambiamento delle stagioni, come delle nostre ere, sui cui poggiare il nostro tempo d’attesa, di richiamo alle cose, alla loro verità intrinseca:“E adesso/  io amo questa nostra vita / mite / e quei colori e quei versi  e / tutta/ infinita grandezza E la  pazienza/ del nulla intorno a  queste sillabe”).

La morte non è l’ultimo vessillo della vita, la morte è solo l’annuncio di un nuovo inizio come scrive il grande poeta Andrea Zanzotto, anche in quella morte apparente del non-essere dell’uomo in questa contemporaneità, spesso drammaticamente vissuta, ma che si presenta sempre come rapporto ininterrotto. La poesia di Salvia ci appartiene, non nella terra, ci appartiene nella sua luce sul vetro.