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Boris Pasternàk e lo stupore dell’Essere

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L’opera di Boris Pasternàk (1890-1960) è attraversata da una vocazione poetica che tende alla gratuità colma dell’esistere. Una vita strenuamente cercata fino all’essenza, dove la poesia non è salvezza ma preghiera incessante, avvenimento, incontro con la sostanza dell’Essere.

L’ambiente familiare, l’amicizia con Rainer Maria Rilke e Skrjabin, Majakovskij, contribuiscono al fiorire della sua vertigine, il suo impeto verso il vertice dell’esistenza, dove le cose si fanno materia e vissuto: <<E neanche d’un nulla tu devi / venire meno all’uomo, / ma essere vivo, vivo e null’altro, / vivo e null’altro fino alla fine>>.

Arte e vita, quindi, legate da una trama vivida, da un discorso ininterrotto e ultimo con Dio, sono le sue rette che si incrociano, perché testimoniano l’essenza della verità e del dono primigenio: <<In ogni cosa voglio andare / sino all’essenza. / nel lavoro, nella ricerca della strada, / nel tumulto del cuore. / Sino all’essenza dei giorni passati, / sino alla loro ragione, / sino ai motivi, sino alle radici,/ sino al midollo>>.

Questo stupore è un dono gratuito che si rinnova e il poeta non è una figura estranea che compone, è abbracciato dalla realtà e dal suo incontro, spesso ricco e pregno di tumulti, ma proteso a una dimensione cosmica, in cui il mondo (la sua steppa tanto cara, ad esempio) è lo spazio della Creazione.

La gioia della vita è il tempio del respiro, potremmo dire. I suoi incastri sonori, le metafore, il frammento fotografico sono la sponda in cui l’ordito delle parole  nasce e rinasce corposa, palpabile.

Scrive Angelo Maria Ripellino: La lirica di Pasternak è tessuta di elementari sensazioni psichiche. Nei suoi versi, come nel campo d’un microscopio, palpita uno sconnesso formicolio di impressioni primordiali. Ed è questa sequela di sensazioni iniziali, di improvvisi stupori, di incantamenti a dare a quei versi una straordinaria freschezza, un sapore di meraviglia. Rispecchiando i riflessi più semplici della coscienza nella loro immediatezza, le immagini, inusitate, dischiudono un magico spazio d’un mondo che sembra creato da poco, ancora gonfio di sonno e stillante di colori.

Le sue vedute, i suoi panorami ricchi di piogge e di odori d’acqua piovana sono inquadrature che recuperano luci e colori, come una febbre scolpita, come un presagio d’infinito o come scrisse la Cvetaeva <<un acquazzone luminoso>>. Un magma d’acqua.

Dopo l’illusione della rivoluzione del ’17 decise di scrivere un’opera che riuscisse a rappresentare: <<una rivoluzione, una decisione definitiva, il desiderio di andare fino in fondo in quello che avevo da dire, e di guardare la vita nello spirito della sua antica certezza, di ritrovare i suoi fondamenti, in tutta la loro ampiezza>>.

Pasternàk, pertanto, scrive un’opera che non sia opposizione ideologica, ma che tenda alla verità ultima delle cose, alla immortalità, al colore dell’epoca: <<Penso che si debba essere fedeli all’immortalità, quest’altro nome della vita, un po’ più forte. Essere fedeli all’immortalità, fedeli a Cristo!>>.

L’apertura del cuore alla dimensione religiosa e alla dimensione affettiva che ne sussegue è il centro del suo essere, la grandezza febbrile, il suo fondamento.

Jurij Zivago, una vera e propria materia vivente, rappresenta l’uomo aperto al miracolo, obbediente alla realtà, che percorre il guado dell’esistenza, al contrario di Pasa Antipov, partigiano rosso che plasma l’esistenza con le proprie mani nude e che assume Strelnikov come nome di battaglia, per stabilire una giustizia che nasce da una misura e da un progetto, finendo irrimediabilmente per essere schiacciato dal debordare della realtà, che lo annichilisce come un tarlo e che non riesce a fermare.

La chiave di Zivago non è solo Lara, benedetta nostalgia che <<per un istante le si svelò il senso dell’esistenza. Lei era lì per cercar di capire la frenetica bellezza del mondo e per dare un nome a tutte le cose e, se le sue forze non fossero bastate, per generare, per amore della vita, dei figli che l’avrebbero fatto al suo posto>>, ma la gratitudine a ciò che c’è, all’amore del cosmo, al filo inscindibile che lega terra e cielo: <<Com’è dolce essere al mondo e amare la vita! Si vorrebbe dire grazie alla vita per quello che è, dirglielo direttamente!>>.

È nell’incontro l’essere vivi. Un dono irresistibile a cui concedere gli occhi anche in ciò che quotidianamente si ripete, per ottenere una vittoria su di sé, come un amore che sopravanza il sole.

È il miracolo, come il sorbo nel romanzo, che genera la vera corrispondenza dell’uomo, dove tutto si compie al cospetto del cielo, nel nome di un’unica realtà.

L’ordine delle cose nasce da qui. Ossia da una santità intrinseca che fa generare lo spirito e la libertà umane. Ecco l’anima di Pasternak.

Il 20 ottobre 1952, ricoverato d’urgenza in ospedale per un infarto, sente una stretta straordinaria a Dio e scrive nei versi finale del suo componimento All’ospedale: <<Mentre mi spengo in un letto d’ospedale/ sento il calore delle tue mani. / Tu mi sorreggi, sono opera tua, / e mi riponi come una gemma nello scrigno>>.  Come un trepido di gemme,  la sua anima cercò sempre quell’amplesso infinito che lo legasse alla natura della realtà e delle cose, laddove l’Assoluto aspetta l’uomo per incontrarlo.