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Carlo Betocchi e lo sguardo che incontra le cose

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Un importante giudizio di Andrea Zanzotto mette luce alla “presenza viva” di Carlo Betocchi, come punto focale e sosta poetica sullo sguardo novecentesco: “ Betocchi comunica il senso di quel ‘sogno-fede’ iniziale, che si autofonda, fonda la vita e insieme la poesia ed ogni arte, fonda la struttura stessa della persona, in quanto vivente e capace di auto progettarsi. (…) Egli è testimone, oltre ogni religione precisa e persino oltre ogni mito, di quella forza che è la fede propria delle madri, aldilà della sua radice biologica”. Gli fa eco Pier Paolo Pasolini: “La poesia di Betocchi è piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere, ed è completa di ragioni”. Quando egli pubblica il suo primo libro Realtà vince il sogno (<<la poesia è altra cosa da ciò che in ogni momento si immagina>>) nel 1932, la stagione novecentesca è ben definita in linee nette e di dominio: d’annunziano in primis e ungarettiano e montaliano poi. La concezione della realtà di Betocchi è problematica, non chiusa né dottrinaria, ma è una visione fino al cromatismo ricreato (<<Perciò requie e chiediamo all’azzurro/ che ci infesta, con messi di rondini>>), una forma dello sguardo, come ciò che scrisse mentre si recava a lavoro sulla strada che da Arezzo porta a Siena:<<Io un’alba guardai il cielo e vidi/ uno spazio aere sulla terra perduta>> <<E apparvero con le puntute ali/ di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti/ gli angioli dalla vallate orientali, / le estreme piume rosee e languenti>>. Visione debordante che sfonda, per così dire, il muro della materialità fine a se stessa, per posarsi sugli oggetti e su situazioni tangibili, intrecciandosi con <<la beltà del giorno>>, una compagnia dello sguardo edificata sul <<concreto>>, il <<realistico>>, l’ <<anti ideologico>>. La sua materia poetica ha radici, come sottolinea lo stesso Zanzotto,  “nella tenace e sublime continuità del tema dell’azzurro”, “un azzurro dall’inesauribile vigore di verità, di sorpresa”. Radici solide e profonde: amore, povertà, gioia, umiltà, pena quotidiana, come esperienze che nutrono la sua sensibilità umana e la destinano all’incontro con il reale, con la rivelazione della vita, della sua fatica. Al centro della poesia di Betocchi, quindi, si situa la pura alterità delle cose, il loro spalancarsi in un’aurora di luce, in modo inesausto, dantesco, come egli stesso scrive:<<Se c’è una cosa che mi ha allucinato è stata la realtà di tutto quello che si vede, e che comunemente viene chiamato il mondo, la quale certe volte mi è sembrato che avesse profondità dove disperavo, e tuttora dispero, nei momenti migliori di arrivare>> . Egli sembra conoscersi solo in rapporto alla realtà esterna, senza fratture ma con pietas e individuazione precisa di sentire, come scrisse di lui il grande e indimenticato Carlo Bo. Pur con le sue origini ermetiche, ha sviluppato un sentire tutto popolare, denso di debolezza e fragilità solenne, ciò che in una meravigliosa espressione ha scritto Valerio Capasa: “la dipendenza che si lascia attrarre dall’essere”: <<O eternità, / che come i trabocchetti/ della vita ci attiri! O passi, / lenti come l’autunno sui campi,/ o limo del paradiso/ che c’impanii!>>. Ed ecco che le similitudini aprono la considerazione sull’universo, come nel componimento Dai tetti, dove egli partendo dal particolare marino scopre il nesso tra l’io e i suoi pensieri e la vastità, fino al dolore e, come Saba, alla privazione. Spesso anche un troncamento mai atono di parole pervade la sua poesia, ma mai frattura, anzi una vera e propria disarmante oggettività, una “felice fisicità” che per dirla con un’espressione di Marchi è” una sintassi dello stupore, esclamativa anche quando propriamente interrogativa” in cui prevale il sacro, come cantico di creature. I paesaggi toscani, la luce delle giornate, le creature, le antiche primordialità, i poveri di Tegoleto dicono sì a ciò che c’è con il loro sì al lavoro. Sembrano quasi riscattate per il loro graffio di vita.  Poesia fisica salvata dall’assoluto che grida una certezza, che impone un baluginìo: <<In questo deserto/ attendo l’implacabile/ venuta d’un’acqua viva/ perché mi faccia a me certo>>. La stessa solitudine è vissuta come invocazione risoluta al <<sacro fonte dell’esistere>>, per uno sfioramento a una nullità splendente, al moto scoperto: <<E dentro i nostri cuori era come/ dentro valli ripiene di nebbie e di sonno/ un lento ascendere dello splendore/ che poscia illuminò i monti del mondo>>. Solo la semplicità che abita il cuore permette di scoprire l’alba, proprio in un secolo che mette a fuoco il problema della fine, punto sorgivo teso all’abbrivio della creazione, una dimensione aurorale” l’ha definita Giovanni Raboni: <<Prima che parli l’alba / (com’usa parlare) con ebbre ciancie,/ una fanciulla scialba/ viene, sciocchi capelli/ smunte guancie. // E’ lei, che a lungo attende / nella via solitaria, presso i muri,/ forse il freddo la prende, / muove nel viso appena gli occhi scuri>>. Scrive ancora Valerio Capasa: “Per Betocchi <<la realtà vince il sogno>> perché <<la realtà nel suo primo porsi, è “piacere”>>, e invita al riconoscimento umile e certo che l’interlocutore della speranza non rimane confinato in una lontananza, ma si comunica costantemente e premurosamente dentro la vicenda quotidiana”. La debolezza di Betocchi è provvidenziale, perché la propria insufficienza si stende verso il destino, percepito al tramonto, ma attraverso cui l’io vigila la pienezza dell’esistere.