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César Vallejo: la parola che sopravvive

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La poesia di César Abraham Vallejo Mendoza (1892-1938), il poeta peruviano più importante di tutti i tempi, è un crinale di emersione e sopravvivenza, non solo per il suo repertorio ampio di metafore e ritmi linguistici, ma soprattutto per l’esperienza poetica che egli mette in scena.

Nato a 3500 metri di altezza a Santiago de Chuco, il più piccolo di undici figli, conobbe da subito non solo l’irregolarità dei suoi studi (si iscriverà a Trujiillo in lettere e filosofia riuscendo a terminare gli studi solo nel 1915), ma anche la fatica dei peones delle zuccheriere, che suscitarono in lui la messa in evidenza del limite della giustizia sociale, o meglio la contraddizione che essa reca in seno.

L’arditezza, l’inquietudine errante, la turbolenza della sua linfa poetica è raccolta in quel fascio di poesie con le quali lascia Trujillo per recarsi a Lima, città di frontiera e slanci. Lì pubblicherà la sua prima raccolta Gli araldi neri, prima vertigine di poesia e lirismo.

Tornando a Santiago de Chuco e coinvolto (si era solo recato sul posto per far da paciere) in sanguinose contese e zuffe -che giungeranno ad un’accusa per incendio doloso dalle autorità- fu addirittura imprigionato, conoscendo nella prigione la durezza delle stanze anguste che vibreranno in Trilce, primo moto autentico e lirico.

Il trasferimento in Europa è una finestra sulla cultura dell’epoca: la Francia, la Russia, la Spagna chiuderanno il suo poema umano e il suo calice di visioni. Morirà il 15 aprile del 1938 a Parigi e sepolto a Montparnasse.

La sua poesia beve alle radici di anima india, la innalza e la sostiene, con un cerchio di visioni sofferte e di incendi brevi di pagine: «E l’uomo… Povero…povero! Gira i suoi occhi, come / quando sopra la spalla una mano chiama;/ gira i suoi occhi folli e tutta la sua vita/ fa pozza, come fango di colpa, nello sguardo».

Ma Vallejo è espressione di un canto bardico di esili e espressioni accese, che inseguono i porti vitali della famiglia e della quotidianità condivisa: «Sorge così dalle remote viscere/ di leggendario huaco, / di bronzei loti favoloso aroma,/ il filo azzurro dei respiri infranti».

Un uomo che vive la penitenza, non solo delle ingiustizie o dei soprusi di autorità incompetenti e asservite al potere, non può non ricercare la salvazione, la comunanza solidale con i poveri e i derelitti di un sistema oppressivo e avvilente: «Quant’è sola la casa! Non v’è chiasso/ Né notizie né verde né bambini. / Se qualcosa d’infranto è in questa sera, / e che scricchiola e scende, / sono due vecchie strade bianche, curve. / il mio cuore per esse avanza a piedi». Ma è una salvezza di anima («E femmina è l’anima di lei assente. / E femmina è l’anima mia»).

Quasi che la parola, con la sua potente fralezza solenne, cercasse un’appartenenza, un’emersione accorata. La sua sofferenza si arresta nell’umiliazione e nell’offesa della violenza delle ore, e la sua voce, ripiena di angoli e originalità franta, è dotata, come scrive, Roberto Paoli: “di una fisicità scheggiata, lancinante ostile”: «Ed è finito anche il diminutivo/ per la maggiore età del mio dolore/ e l’esser nati così senza ragione».

Ed ecco che l’alleanza tra temperie spagnola –specie nelle temperanze moderniste-, non lontana da profondi echi barocchi, e sensibilità india, trova il suo vertice, la sua pienezza, come annotò Josè Carlos Mariàtegui: “il pessimismo dell’indio. In questo pessimismo si trova sempre un fondo di pietà umana. Questo pessimismo è privo di qualsiasi origine letteraria. Non traduce una romantica disperazione da adolescente turbato dalla voce di Leopardi o di Schopenhauer. Riassume l’esperienza filosofica, condensa l’atteggiamento spirituale di una razza, di un popolo.”

In questo luogo l’impronta quechua si insinua spontaneamente, si configura come cellula peculiare ed elemento organico, come «pietra dura dei rumori».

Si assiste ad uno sconvolgimento della parola, che nelle scene familiari persegue un’ eccezionale prospettiva lirica, proprio perché in quella zona di luce si trova la permanenza dell’esistere, la genuinità di ricordi e la vitalità che si indossa in una carta e in un’anima.

L’agone con la parola è un vortice di coloriture spezzate e sofferenti, una traiettoria di solitudine e di eversione che scrive nell’aria.

Dal silenzio nasce la sua salvazione emersa. Sebbene i primi tentativi poetici si impongano con un limite, piano piano egli acquista la purità lessicale, sganciata da ogni riferimento modernista, per ricercare un nuovo ponte espressivo, una nuova metafora che, pur indigente, spiazzi.

Trilce, scritta tra il 1921 e il 1922 in carcere, è il primo approdo di un nuovo campionario poetico, uno stravolgimento di simboli e trasfigurazioni, che imprimono la nuova sorgente primordiale della vita.

Il confronto con il cubismo, il surrealismo e l’espressionismo forniscono a Vallejo una nuova parabola di significazioni e di giustezze espressive.

Il frammento, il tono patetico, la musicalità che incontra persino l’umorismo, e infine la colloquialità, restituiscono un’unica traccia di dolore, in un poema umano che, come scrive ancora Paoli, si apre all’ “andino panorama di scabra maestà verbale”, cancellando “a livello di percezione e di linguaggio ogni traccia di edonismo e di sensualità per aderire alla pura sensazione della carenza e del dolore”.

È infatti nell’implacabilità della carenza, oltre le illusioni, che si situa la sua intensità. Una società ingiusta e meschina che nel suo sipario (Spagna, allontana da me questo calice), spesso grottesco, si appropria degli occhi dell’uomo che patisce e muore. Nella nudità del silenzio, nell’espressività fisica di un canto doloroso e vivo.

Quando il poema del vivere abbraccia l’umano, ecco che la poesia è una riva autentica, perché tocca le sacre pagine del dolore e dell’ombra. Il solco oscuro e lucido della nostra umanità e il canto potente e lievissimo della nostra dignità.