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Le desinenze dell’isola: Alfonso Gatto

Esiste una continuità poetica nell’opera di Alfonso Gatto (1909-1976), uno dei maggiori poeti del’900. Dal suo primo inizio Isola del 1932 fino a Desinenze del 1977, uscito postumo,  si assiste a un sobbalzo di un canto fioco. Nella sua poetica esiste un lessema in movimento: isola. Un archetipo di confine che rimane intatto, una traccia eterna.

Gatto, scrive Silvio Ramat, appartiene a “quella specie di poeti che non largheggiano nella quantità, nel numero, esercitando l’estro di una rielaborazione combinatoria ininterrotta […] su un vocabolario relativamente esiguo.

Dal naufragio ungarettiano egli, fedele alla tradizione petrarchesca prima e leopardiana poi, disegna le sue tracce sulla riva, all’approdo <<ai banchi umidi>>.

La sua tendenza al “surrealismo di idillio” lo lascia vicino come a un gorgo che desidera una decifrazione, una giovinezza piena: <<In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo. / Circolo chiuso ad ogni essere è l’amore che lo regge. / Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento. / Universo che mi spazia e m’isola, poesia>>.

La proprietà di un’identità scorge  un unico tratto di isolamento e di grido fioco: <<M’isolo in questo mio sorgere nudo all’amore, oltre di me mi vedo spuntare miracoloso, lontano>>. La poesia-visione permette lo slancio dell’essere che si poggia su quel termine chiave isola-isolamento, come una rocca <<nell’esser soli per vederci insieme / nell’eguale costrutto>> .

La cifra memorabile del suo universo poetico si instaura sulla dimensione dell’oltre. Poetica orfica che vive di un trapassato sepolto, dove egli, unico superstite: <<Sia disciolto / dalla pazienza d’essere l’eguale // morto che canta ai suoi paesi…>>.

La poesia che tende alla vita, al suo respiro sottile e lieve, fa i conti con il lutto, la mancanza, la morte, non solo fisica, quella affettiva per esempio, e infine al segno e al rito.

I lutto nella poesia di Gatto è una mancanza, una orfanità, si potrebbe dire. Lutto reale (come la morte del fratellino-alter-ego Gerardo), ma anche lutto di memoria di luoghi e passi tra le figure.

I giorni hanno il sapore del commiato e del congedo e non ultimo dell’addio. Anche Caproni e Luzi avevano visitato queste stanze nelle loro opere, in Gatto divengono passaggio di oltre verso un ultimo sguardo che tocca e si possa sulle stagioni.

In questa linea vivida, sebbene frazionata, il silenzio assume il colore del richiamo e della convocazione. La voce ha l’aspetto del bisbiglio e del sussurro che lambisce le sponde dell’ascolto, in un flatus vocis dirompente e lieve.

Esiste una povertà di passaggio tra vita e morte, anche nella parola. I lemmi si incidono nell’assenza, a un raccoglimento di ombre, molto vicine a Pascoli: << (…) alla voce perduta che reclina / per tutti i morti il capo sulla neve>>.

Qui anche la figura materna assume un sigillo di pienezza e compimento: <<Mia madre all’alba non ha colore / ma il freddo di celesti aurore / le porta nel seno, / dolci paesi d’albicocca…>>).

Anche la guerra assume uno scorcio di paesaggio furente ma non duraturo, a una humanitas  di blocchi e frammenti tesa alla visionarietà etica, al fatto etico che accarezza umili e offesi <<in tuta e col petto discinto>>, per ricercare un attimo vero di sacrificio esemplare ed elegiaco : << L’alba è già scesa sui capelli biondi / dei ragazzi che avanzano in cielo >>.

La percezione della precarietà ha in lui una sorgente di domanda, una disperata vitalità direbbe Pasolini.

L’amore, pertanto, è cantato con toni suggestivi, come esercizio di innocenza, memoria sincronica che fronteggia, anche qui, la morte in  uno strenuo corpo a corpo bisbigliato e rappreso.

Esiste una frontiera in quella pagina poetica, una forza di occhi protesa all’essenziale, allo scorcio dell’esistere: <<Del bel discorrere di feste e fiere / al sole della stanza marina, / la libecciata in vetrina / come un medagliere. / Ogni parola felice / di quel che si dice / e il mondo una scommessa. // Ha freddo nero / una donna sempre la stessa. / Nulla che scordi la terra. / solo il mare volubile e gaio / orecchio da marinaio>>.

In mezzo alle cose c’è una sorta di  fulgore solenne, anarchico, che chiude un serraglio di desinenze, di oggetti che noi che cerchiamo di raccogliere nelle lontananze dell’universo e che ci parlano: <<Ma l’alta solitudine che resta / inerme, inascoltata, è questa rara / pazienza, questa musica di passi / che invoglia il suo corteo, la sua spola/ dall’uno all’altro cenno, questa festa/ della parola incontro alla parola. // Una parola vindice è l’oscura / pietra che s’è costruita trasparente, / indomabile e doma quanto in morte / esalta la sua luce e al tutto il niente…

Un percorso poetico che fa di Gatto una voce piena nel panorama novecentesco. Ricerca un approdo, una desinenza per l’anima dove raggiungere il sigillo del nome, in una carezza mai estinta: <<Or nella solitaria / cadenza d’un approdo, / svanita la memoria / al suo tepore effusa, / esala bianca l’isola / la brezza del mio cielo>>.