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Dove eravamo rimasti

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Ricki è un’anzianotta aspirante rock star, che per amore della musica ha lasciato la famiglia. Ma ora la figlia ha bisogno di lei. Meryl Streep è un mostro. L’attrice, fresca dei suoi 66 anni benissimamente portati, protagonista di questo film (USA, 15), può permettersi tutto. Anche di diventare una credibile mai nata rockstar: ma solo infervorata dall’inestinguibile passione per la musica. Che alla sua non verde età la fa comunque, anche se solo, tirare avanti , con una certa qual dignità e identità professionale, con le serate in locali mezze botte. Eppure, è là. Con la grinta e la congruenza personale di una che è compos (padrona) di sé e della sua vita: non è una che aspira ad essere presa per ciò che non è; magari con uno stucchevole sottofondo intellettuale, irrealizzato e/o “non compreso”, e che poi la fa diventare “qualcuno”.

Il personaggio, che, come hanno detto gli autori, è stato reinventato e approfondito con umile e geniale maestria da Meryl, porta la firma della giovane sceneggiatrice Diablo Cody, anch’essa un “personaggio” in sé. Al secolo Brooke M. Busey, bella trentasettenne di Chicago, da poco madre per la terza volta, nella vita ha fatto di tutto: compreso la stripper e la lap dancer; ha creato un blog dove parlava di sesso. Interessata al cinema scrisse una sceneggiatura “Juno” (2007), su una ragazzina che, rimasta incinta, decide di far nascere il figlio. Fu un vero botto: vendette lo script; e quel film vinse l’Oscar come migliore sceneggiatura originale. Da allora ne ha scritte molte altre, tra cinema e tv, con personalità e successo. E a proposito della complessa psicologia, ma così realistica, di Ricki, ha molto opportunamente osservato che: “Scrivere film su donne incasinate è complicatissimo: devi assomigliar loro almeno un po’”.

Ed è proprio così. Anche facendo la tara sulla meravigliosa Meryl  Steep, è la concezione complessiva di lei che ha una sua densa umanità, anche in contrasto coll’ingessato, ma non squallido, marito (Kevin Kline), che certamente avrebbe potuto assicurarle quella sicurezza, priva di prospettive, di creatività e di musica. L’avrebbe impoverita spiritualmente, desertificata dentro e resa infelice. I suoi, col tempo, pur con fatica hanno imparato a convivere e accettare questo dilemma tra famiglia e vocazione artistica: giustamente, a prescindere dal talento, che poteva o meno esserci. In particolare con la figlia, che è anche nella vita figlia della Streep. Con cui però il percorso sembra avviato: ma sempre nella rispettiva autonomia di crescita e di percorsi di vita. La regia è di Jonathan Demme, il versatile maestro che passa dal giallo (Oscar nel 91 con “Il silenzio degli innocenti”) al musical: ma il suo arci-amore per la musica è noto. Qui accompagna con grande discrezione il passaggio della figlia verso la madre: non è un viatico indolore, perché è molto facile “dare la colpa” a qualcuno per le proprie debolezze. Fa “girare” la storia attorno a questi “sfigati”, ma seri professionisti della musica: forse provvisti di talento, forse no: anche se il partner di Ricki è la vera star australiana Rick Springfield e lei stessa canta da sola, senza doppiaggio. La qualità è proprio questa: uno spettacolo dalle coordinate che sembrano “non hollywoodiane”; ma intrise di amore per ciò che si fa; inquadrate in un segno di coerenza personale, ricco di umanità e di forza.