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L’esigenza permanente di Cesare Pavese

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Leggendo le pagine di Cesare Pavese ci si ritrova afferrati e feriti dalla lealtà con cui egli ha guardato all’esperienza umana e al suo compimento, che vibra su di noi in maniera mai estranea. Lo  sguardo con cui Pavese è penetrato nel rapporto con il reale, risulta proteso all’attesa di guardare e di essere guardato con simpatia totale, venandosi poi di malinconica incolmabilità. I personaggi pavesiani sono segnati indelebilmente da questa ferita, come Edipo nei Dialoghi con Leucò: <<Cercavo ignaro come tutti, di far bene, di trovare nei giorni un bene ignoto che mi desse la sera un sollievo>>. La ricerca di qualcosa per cui vivere, un arco da tendere, verso un segreto ineliminabile nell’esistenza che preme nel cuore e che rende insopportabile l’allegria svagata (il “nichilismo gaio” direbbe Augusto Del Noce) di questo profondo e inespresso desiderio.

Dopo aver vinto il premio Strega annotava, un paio di mesi prima di morire: “A Roma, apoteosi. E con questo?”. Non sarebbe bastato, proprio perché noi siamo “irrequieti e insaziati/ sempre solo portando nel cuore / l’amore disperato/ verso tutte le cose”e in una lettera a Mario Alicata del 1941 scrive: “Esatta è l’affermazione che la mia persona sia un’esigenza permanente”.

Non si può comprendere Pavese senza fare i conti con questa urgenza. Rimanendo lontani da  molti stereotipi e luoghi comuni sulla predisposizione al suicidio o di una stramba riluttanza alla vita,ci viene egli stesso in soccorso nel dialogo L’isola, quando Calipso dice ad Odisseo: “Perché continuare? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre” ma risponde Odisseo: “Quello che cerco l’ho nel cuore, come te”, due opzioni: la disillusione cinica di chi non spera più niente da sé e tutti coloro che vivono e sperano della propria misura.

Il suo poetare è sempre una ferita aperta e si rivolge a persone vere non incrostate o indurite, ma a chi sa rischiare la propria libertà e la propria “ seconda volta” dell’esperienza, incontrando e scoprendosi uomo: “(…) ammirare, cioè godere come forma, significa appunto vedere come segno”.

Il problema di Pavese si gioca, quindi, a livello dell’io, dell’inesausta ricerca di se stesso che  nell’indicibile delle cose scopre il volto o la strada, e riavvicina la possibilità di un incontro . Scrive nell’incipit de Il campo di granturco, tratto da Feria d’agosto: “Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell’aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c’era il cielo vuoto. “Quest’è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta (…)ero io che stavo lontano, lontano da tutti i campi di granturco e da tutti i cieli vuoti”. L’attesa di un evento inaudito , si pensi a La vigna, che cambi l’esistenza, una parola che carichi i nostri bisogni, uno sguardo in profondità proteso al mistero dell’orizzonte, che diventa insopprimibile e scomodo desiderio, come tempo prima aveva già compreso Leopardi.

Scrive Valerio Capasa: “La realtà che è la vera ‘lei’ di Pavese – è sfuggente, veicola un mistero irriducibile alle nostre misure. Pavese ne descrive benissimo tutti dettagli, eppure non può afferrane il significato ultimo. (…) L’innamoramento è la percezione di qualcosa d’altro che non si può possedere, ma che una certa persona precisa condensa in sé: c’è tutto ciò che è tuo, ma anche qualcosa d’altro”. L’io è fatto per iniziare, per l’inaudita scoperta ed egli non si è mai sottratto a questa apertura. Non è il poeta della solitudine e colui che meglio ha messo a fuoco il bruciore della solitudine. Solitudine mendicante di un abbraccio di sguardo di simpatia totale, di grido d’infanzia, di scontro tra l’arte del vivere e il mestiere di vivere:” Sei come una nube / intravista fra i rami. Ti ride negli occhi / la stranezza di un cielo che non è il tuo”. Il linguaggio mitico racconta quell’ “incremento di vita” che avviene quando si percepisce il fondo del mistero, il fondo della realtà che compie l’esperienza di una terra incognita per attraversare “la schiuma dell’onda” dell’ “inquietudine”, come scrive all’amata Constance Dowling.

In una delle ultime poesie, raccolte in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, lo sperdimento per la perdita di lei provoca  un’invocazione a una “chiarezza lontana” intravista attraverso il chiarore delle stelle: “ O luce, / chiarezza lontana, respiro/ affannoso, rivolgi gli occhi/ immobili e chiari su noi. / è buio il mattino che passa/ senza la luce dei tuoi occhi.” La domanda che quel mito, quel ‘tu’ che soddisfa il cuore possa incarnarsi e dar compimento, o un dio che sbucasse su quelle colline, un amico da attendere, che si traduce in un desiderio che muova un cambiamento, che rompa l’immutabilità della vita. Nella realtà, sembra ricordarci Pavese, c’è sempre qualche stella “anche vacillante, che riaccende questa attesa, che ci fa scoprire, di fronte alla grandezza dell’infinito stellato, come di fronte alla banalità di una sigaretta, di aspettare insieme, di avere a cuore lo stesso destino” (Valerio Capasa). La poesia è questa amicizia, non un esperimento intellettuale, ma quella che Pavese chiamava “comunione”.