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Fare catechesi in carcere: fondamenti teologici e implicazioni esperienziali

Perché non io? Fare catechesi in carcere: fondamenti teologici e implicazioni esperienziali; 19  aprile 2018, lezione quinta del corso di formazione teologica pastorale nelle carceri: Perdono responsabile e giustizia riparativa: uno sguardo profetico, presso la Pontifica Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli, sezione San Tommaso d’Aquino al Viale Colli Aminei. Relatori il professore Antonio Spagnoli, AC Arcidiocesi di Napoli e suor Lidia Schettino, operatrice pastorale carceraria, religiosa della congregazione delle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione d’Ivrea.

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Fare catechesi nelle carceri – Opera di misericordia straordinaria, la visita ai carcerati favorisce la crescita del rapporto tra carcere e territorio, tra la comunità ecclesiale interna al carcere e quella esterna. Si tratta di annodare fili tra carcere e territorio, legami che si devono stringere grazie all’impegno dei volontari, ma anche delle comunità, dei gruppi e delle associazioni di cui essi sono espressione. Andando in carcere, si accoglie la sfida di incontrare persone semicredenti, indifferenti, non credenti, credenti  a modo loro,  e di dire a ciascuno vieni e vedi. Si assume la responsabilità di provare a far emergere, anche all’interno di un penitenziario, quella nostalgia di infinito, quella fame di Dio che ogni persona ha nel proprio cuore.

Il professore Antonio Spagnoli ed il suo operato nelle carceri – C’è chi ha ricevuto la prima Comunione, chi per la prima volta ha partecipato ad un incontro di catechesi, chi racconta di un cammino di conversione. Pedro, Giovanni, Michele, Salvatore… sono detenuti al carcere di Poggioreale di Napoli, le loro storie sono raccontate dai volontari che hanno bussato alle porte del penitenziario per portarvi la parola di Dio e la speranza, laddove la speranza sembra perduta o negata. Parole e storie, volti e cammini descritti dal relatore, che nel suo intervento ha ripercorso il cammino dei mondo dei volontari che, ogni settimana, hanno scelto di annunciare Gesù, nel carcere di Poggioreale, nei padiglioni Avellino, Firenze e Napoli, e percorrere insieme un cammino di formazione e catechesi, fino alla celebrazione della Messa o alla Prima Comunione. Storie di liberazione, segni di una conversione che iniziano a farsi strada nella vita di tanti.  La testimonianza riportata di chi in carcere ha cominciato a essere veramente uomo, a essere veramente cristiano; di chi ha capito il valore della propria esistenza durante la Via Crucis all’interno del carcere, quando era come schiacciato da quella sofferenza. <<Sono stato crocifisso anch’io, ho compreso da dove veniva la sorgente della mia salvezza>>. Molti hanno ammesso che, grazie al percorso di catechesi, hanno ritrovato Dio e hanno iniziato a leggere il Vangelo con assiduità e meditarlo. E c’è chi ha espresso in versi la gratitudine e la ricerca di un senso. <<Ci ritornano alla mente – dice il professore Spagnoli – le parole pronunciate da Cristo a coloro che chiedevano come dovevano comportarsi con la giovane donna adultera: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Per entrare in carcere è indispensabile mettere il proprio cuore accanto a quello di un fratello che soffre, sia pure per responsabilità proprie, senza attendersi o chiedere nulla, assumendo uno stile di assoluta gratuità>>.

Suor Lidia Schettino, la saggezza nella fede:<<La carità è una forza che sollecita e sorregge. Il volontariato deve essere fatto da innamorati. Bisogna far capire ai carcerati la differenza tra fede e religione. È come se vivi un lutto, piangi, ma lo vivi con forza, fino a ritornare uomini puliti. L’uomo che vive in situazione di detenzione è sempre in detenzione di invocazione. I detenuti sono molto solidali tra dialogo,  si aiutano, ma si scagliano anche. Bisogna ricordarsi che vivono nel nulla,  il volontario entra nel loro nulla e diventa presenza. Il rapporto del detenuto deve essere di aiuto, perché la loro fede diventi garanzia. Queste persone, lì dove stanno, sentono di essere amate da Dio, ma lo sentono non perché glielo dico io, ma perché nella solitudine si percepisce di più Dio. È in questo rapporto più intimo e più silenzioso con Lui che scatta il desiderio e la volontà redentiva. C’é sempre il rifiuto del male commesso. Delle volte capita dopo pochi mesi, altre dopo anni. Il tempo di detenzione non è un tempo negato. È il tempo in cui i detenuti possono esprimere la propria umanità>>. E suor Lidia, grazie all’estrema affabilità, con una dolcezza piena di forza, accompagna questi figli con discrezione e affetto.