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I fotogrammi di Charles Simic

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Ciò che anima la poesia di Charles Simic, poeta laureato e premio Pulitzer, nato a Belgrado nel 1938, nel cuore dell’Europa, dilaniato dalla Seconda Guerra Mondiale (esperienza presente in molte sue liriche), ma emigrato nel 1953 negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura americana e scrittura creativa all’Università del New Hampshire, è un varco di sintassi suggestiva e imprevedibile, in cui la meraviglia del quotidiano si impregna del mondo osservato, dello spazio di fiato tra le ombre, della correlazione tra gli oggetti.

Il teatro dei muri e delle pareti, degli intonaci scossi e dei passaggi di tempo (Hotel Insomnia), si fermano nell’intuizione dell’umanità scarna, nell’odore fresco, di ciò che lo iato umano scompone e continuamente ricompone, come cosparso scintillio di lune. Ecco cosa scrive in Stone, suo lancio e sua custodia: «Càlati in un sasso, / io farei così. / lascia che altri si facciano colomba / o digrignino i denti come tigri. / mi basta essere un sasso. / All’esterno è un enigma: / nessuno sa come rispondere. / ma fresco e quiete dev’esserci all’interno. […] Ho visto scintille schizzar via / quando due sassi sono strofinati / forse là dentro, non fa così buio; / forse c’è una luna che brilla / da chissà dove, spuntando magari dietro un colle – / un chiarore appena sufficiente a decifrare / quelle strane scritte, mappe stellari / sui muri interiori».

Commenta padre Antonio Spadaro: «La poesia si regge su un assurdo, sulla possibilità di calarsi in un sasso. Eppure proprio questo paradosso rende i versi efficaci e intensamente espressivi di una condizione interiore. Allora non sorprende che dentro un sasso possa trovarsi perfino a moon shining, uno scintillio di luna. Se questo è vero per un sasso, è anche vero per tutti quei luoghi e quelle situazioni dove la coscienza appare incapace di trovare parole efficaci, ciò gli è permesso non tanto da uno sguardo fisso e acuto, quanto da uno sguardo che non riesce ad addormentarsi sulla realtà, uno sguardo insonne capace di visioni estreme e sguardi affilati».

Il gesto di Simic scoperchia l’immagine per disegnarla visivamente, puntella i ricordi velandoli, incendia il sogno, per cogliere il reale nel suo tremore di lati e nella penombra lucente di una immensa fotografia umana scarna e tremula: «Erano le 5 / del mattino. / Aspettavi che un raggio di sole / ti scaldasse un poco i piedi gelati, / o che tua moglie entrasse assonnata / con la vestaglia azzurra consunta, / e si chinasse con i capelli sugli occhi / a raccogliere il giornale che ti era scivolato di mano / con quel titolo e una grande fotografia, / e restasse così, piegata, a leggere / intenta, con la vestaglia che si schiudeva poco a poco».

La coltre del quotidiano si apre schiudendo il folto dei frammenti. La pienezza della visione di Simic condensa il suo immaginario nella sensualità, nella correlazione e nel rapporto tra persone e oggetti, in un tessuto minimo ed essenziale, che muovendosi in un diaframma filosofico, penetra nella realtà, al di là di ogni significato apparente.

In un bellissimo articolo di Livia Manera sul “Corriere della sera” dell’11 giugno 2012, Simic rivela la sua percezione stuporosa: «La verità è che ogni volta che ci sdraiamo siamo vicini al cielo. Se non ci credete, guardate il gatto, come si rotola sulla schiena con le zampe in aria. Un mattino di sole dopo il temporale notturno è un invito in paradiso e così siamo saltati giù dal letto con l’idea di vestirci in fretta, solo che poi abbiamo cominciato a baciarci e passo passo ci siamo ritrovati di nuovo a letto, stupiti di vedere sopra la testa il soffitto e non il cielo azzurro».

Ma di cosa parla l’azzurra rapina di Simic? Quale labirinto o caccia di immagini sottende la sua sensazione e la sua relazione?. L’origine della sua poesia si sospende nel varco caro ai poeti: «conoscere ciò che non si può tradurre in parole».

Il che significa scomodare, come dice la Ravera, e «sperimentare l’arte come riduzione (con Lèvi Strauss) e la poesia come vocabolario (con Gertrude Stein); vogliono lasciare all’insipienza dei critici letterari parole come «messaggio» e «contenuto», e vogliono, afferma Simic «fare una cosa che ancora non esiste, ma che una volta creata sembra sia sempre esistita».

Questo impone una carnalità viva, un sostegno allegro e violento che coglie l’incoscienza di una visita, di un indizio pieno, di una curiosità poco scaltra, «per irritare Dio e per far ridere la Morte».

Ecco allora che la “rapina” visiva di Simic caccia le immagini, le insegue figurativamente, si imbatte in una possibile esistenza ricreata, per catturarla e conciliarla.

Così rintraccia la possibilità di un indizio vitale e peregrino, come l’arte di Cornell si permette di studiare le stanze per farle sembrare sogni e visioni e dove i personaggi della scena rigano i propri labirinti e le proprie corrispondenze occulte.

Il subentrare dell’Insonnia è l’atterrito coperchio di un crepuscolo che giace nel piccolo albergo, costretto a battagliare con la notte aliena, attraverso una spoliazione.

Nel mistero dell’immagine e «All’interno di ciascuno di noi», come sostiene acutamente Natàlia Castaldi, soffermandosi su questo cacciatore di immagini, «ci sono stanze segrete. Sono ingombre di cose, e con le luci spente. C’è un letto in cui qualcuno è steso e con la faccia rivolta verso il muro. Nella testa di quell’uomo ci sono altre stanze. In una di queste, le veneziane sbattono all’avvicinarsi di un temporale estivo. Ogni tanto un oggetto sul tavolo diventa visibile: una bussola rotta, un ciottolo del colore della mezzanotte, l’ingrandimento di una fotografia scolastica con un volto sullo sfondo evidenziato da un circoletto – una molla di orologio – ognuno di questi oggetti è un totem dell’io».

E dal suo pertugio che egli protende la sua stanza al paradiso, la sua gestualità, il suo oggetto che ricopre tante vite, quante le iridi e gli specchi: «Un paio di sere al mese / un vecchio sgangherato ci veniva a suonare / “My Blue Heaven”. / il più delle volte, però, era tutto tranquillo. / ogni camera aveva il suo ragno in pastrano pesante / intento a catturare la sua mosca nella rete / tra fumo di sigarette e fantasie. / Era così buio / che non riuscivo a vedermi nello specchio del lavandino. / Alle 5 del mattino il passo dei piedi nudi al piano di sopra. / Lo “Zingaro” che legge la fortuna, / al negozio giù all’angolo, / se ne va a pisciare dopo una notte di sesso. / Una volta anche il pianto di un bambino singhiozzante. / Era così vicino che per un momento / pensai che a singhiozzare fossi io».

L’umanità di Simic insegue la poesia quando percepisce, nel frammento, il collage di qualcosa d’altro, la vertigine e il destino che appaiono come zone e coltri, scatole magiche di incantesimo e varietà umana al di là delle parole e, infine, forgia d’immaginazione. Scrive, infatti, Mark Strand: «le poesie di Charles Simic rivelano con chiarezza essenziale il profilo e le caratteristiche di un mondo che inventiamo in segreto, che segna le nostre vite nel momento della loro massima intensità, e che noi troppo spesso neghiamo perché è più reale di qualsiasi altra cosa a noi nota. La sua opera è pervasa dal senso che le immagini precedono gli oggetti, che il mondo è una creazione della favola, che nulla equivale a ciò che pensavamo che fosse, ma che in qualche modo sospettavamo potesse essere».

La densità delle cose è calpestio di rocce insanguinate, la luce del sole che irrompe sulla nudità, il terrazzo di sorsi, le suole in pezzi, le sequenze di notti sole, perché il mondo non finisce: «Sembrava il tipo di vita che volevamo / Fragole di bosco e panna al mattino. / La luce del sole in ogni stanza. / E a noi a camminare nudi sulla riva. […] Come attori tragici d’un teatro in fiamme, / con gli uccelli a ruotare in cerchio sulle nostre teste, / ed i pini scuri inspiegabilmente ancora lì fermi, / abbiamo calpestato ogni roccia insanguinata dal tramonto. / E poi di nuovo sul nostro terrazzo a sorseggiare vino. / perché sempre questo senso di tragico finire? Nuvole dalle sembianze quasi umane si ammassavano / all’orizzonte, mentre ogni cosa era piacevole / nell’aria mite ed il mare sereno. / poi la notte ancora ci sorprese, una notte senza stelle. / Mentre tu accendevi una candela, nuda la portavi / in camera da letto ed in fretta la spegnevi, / ancora lì, inspiegabilmente fermi nel buio, i pini e l’erba».

È l’insonnia, l’intimità nuda e parnassica, quella che consente di vedere «le stelle come le impronte di denti sulle matite dei bambini» o le angurie come «Verdi Buddha / nel chiosco della frutta. / ne mangiamo il sorriso / per sputarne i denti», a far trapelare la sua trasudata descrizione, che dona un simbolo racchiuso, apparso improvvisamente nella mente e carico di significato e di mistero: una partita a scacchi che friziona la luce per posizionarsi nell’ombra, interrogare Dio per guardare la metafisica, la grande metafora per fermarsi sul mondo, toccare con le mani il silenzio dell’ardesia, perché «La poesia consiste in un impegno con la realtà, ma allo stesso tempo con l’immaginazione, è come guardare il mondo con gli occhi ben aperti, osservare un’anatra che attraversa una strada di città, come la Quinta strada. Ma a volte, per vedere le cose meglio, chiudi gli occhi, per visualizzare con la tua immaginazione, per poter apprezzare appieno una cosa, per poterla comprendere. È una composizione di immaginazione e realtà, entrambe valide ed entrambe importanti».

«Amo i crepuscoli d’estate,», dice in un’intervista a Luca Mastrantonio sul “Corriere della Sera”, «in città come in campagna, quando ogni strada di New York sta scrivendo la sua poesia e ogni grande albero del New Hampshire sta facendo lo stesso».