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Francesco Guicciardini e l’arte del particulare

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“Vero magnate e figlio di magnati, (…) e quindi diplomatico di razza, non di ventura, come Niccolò; superbo e chiuso, taccagno, persino al dir dei contemporanei; rifuggente da ogni parola e gesto che potesse tornargli a scredito presso gli uomini gravi; discreto nel conversare come nel sorridere – non lui certamente si sarebbe trattenuto in bottega di una Riccia qualunque per dar consigli non richiesti e vani”, così Federico Chabod descrive Francesco Guicciardini, la  cui prestigiosa carriera, egli membro della più alta aristocrazia cittadina, abita la parabola che va dalla crisi della municipalità fiorentina al passaggio verso il Principato. Perché parlarne oggi?. Non solo per la totale dimenticanza della sua figura, (anche per la sua duplice veste di politico e letterato), se non grazie al recupero di eccellenti studiosi come Emanuele Cutinelli Rendina che se ne è occupato in un importante saggio, ma perché in tante celebrazioni un po’retoriche della nostra nazione, uno sguardo dal passato, forse opinabile, potrebbe mettere a fuoco tante questioni oggi irrisolte.

Politico, letterato e storiografo. Dentro queste tre vesti si muove la sua anima e in quest’ultima si rispecchia l’iniziatore di una nuova concezione storica, essenzialmente morale, e il modo di scriverla. Storia in senso rigorosamente umanistico, quindi, basato sui resoconti, sull’esame, sul materiale documentario.

La realtà empirica guicciardiniana è instabile, mutevoli ma densamente umani. E sono proprio gli uomini, visti nelle loro passioni che sfuggono il vero controllo della ratio. La discrezione è ciò che deve caratterizzare ogni umana condotta verso la propria precipua specificità.

Le sue dinamiche fiorentine prima e La Storia d’Italia poi, uscita postuma nel 1561, sono l’opera di un uomo che si rivede nella politica razionale ma anche l’opera che più di tutte è intessuta delle trame invisibili e impersonali della Fortuna, che però non toglie ai protagonisti la responsabilità di ciò che compiono, in una sorta di frattura perenne tra azione e esito.

Guicciardini pertanto assiste al teatro tragico di guerre, separazioni e accecamenti, di principi e governanti, di entità opposte e di conflitti.

La vexata quaestio tra Ragione e Fortuna arrovella l’uomo-Guicciardini e il suo particulare, la capacità non solo d’interesse ma di penetrare nel ‘perché’ degli avvenimenti, nelle problematiche della civiltà. Scrive Giulio Ferroni: “La narrazione del Guicciardini sa stringere in un disegno organico eventi che sembrano invece dissociarsi da ogni catena di causa-effetto. Il corso storico non è retto da fini trascendenti, ma da una inesorabile logica negativa, che l’autore tenacemente insegue. Egli crea così una storiografia laica, tutta costruita sulle aspirazioni, le illusioni, gli errori, le ambizioni, i desideri, le violenze che si manifestano nei rapporti tra gli uomini”.

La sua visone gli permetteva la comprensione dei sommovimenti umani: si trattava di considerare ogni soggetto all’interno di un rapporto di vizio e virtù. Solo nella successione contorta, problematica dei fatti si rivela la personalità umana, succube di presagi e di forze esterne, celebre a tal proposito è il parallelo tra Clemente VII e Leone X.

Il lessico, mai troppo ricercato e poco colorito (Delio Cantimori la chiamava “compostezza inquieta”) è proteso alle sue enunciazioni e ai suoi lemmi, come “ prudenza” “esperienza”, “saviezza” “giudicio” e dietro questi cardini si manifesta il politico.

Francesco de Sanctis occupandosi nel 1869 di Guicciardini colpiva severamente proprio quel particulare, in bilico tra splendore culturale e svuotamento etico. Egli è innanzitutto un uomo inserito nel suo tempo o meglio nel costume politico del suo tempo, proteso a conservare gli equilibri politici, in un clima negativo di vita collettiva, sperimentando la vaghezza indistinta dei principi umani, analizzati nella molteplicità indefinibile dei punti di vista e nella impossibilità di impostare schemi generali nei comportamenti, si pensi ad esempio alla narrazione della morte di papa Alessandro VI, dove l’attenzione dello storico si posa sull’ondosità irregolare degli accadimenti. Un lettore di eccezione fu Michel de Montaigne che riconobbe, pur con riserve nel giudizio etico, la sua arte storiografica e narrativa: “Ho notato anche questo, che di tanti animi e di tanti fatti che giudica, di tanti impulsi e disegni, non ne attribuisce mai neppure uno alla virtù, alla religione, alla coscienza, come se tali qualità fossero completamente estinte nel mondo; e di tutte le azioni,m per quanto belle appaiano in sé stesse, ne rimanda la causa a qualche movente vizioso o a qualche mira d’interesse (…); questo mi fa temere che ci sia qui un po’ del vizio del suo temperamento, e può essere accaduto che egli abbia giudicato gli altri secondo se stesso”.