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Il Cavallo Bianco di Chesterton

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Nel 1911 uno dei più grandi geni che l’umanità abbia avuto, Gilbert Keith Chesterton, pubblicò La ballata del cavallo bianco, poema-crinale e profetico.
Si narra la resistenza e la lotta di re Alfredo il Grande alle invasioni danesi nell’Inghilterra del X secolo, e in particolar modo la battaglia di Ethandune, non facilmente individuabile, che l’autore immaginò svolgersi proprio nei pressi del Cavallo Bianco, monumento preistorico su un declivio, che distende la figura di un cavallo su un prato verde.
Quell’immagine è la certezza di un’appartenenza, del simbolo del popolo inglese e della sua nazione, della cristianità europea, e della capacità di fronteggiare le oscure minacce dell’invasore perché <<il valore fondamentale della leggenda è di fondere i secoli preservando il senso, quasi per osservare tutte le epoche in uno scorcio d’effetto. Così si usa la tradizione: per proiettare la visione della storia come in un telescopio>>.
Ed ecco che la leggenda diviene di fatto espressione popolare, affidata allo splendore della semplicità umile di chi la racconta, anche attraverso l’altezza del paradosso: <<…quando la lavagna blu del cielo è cancellata/ completamente fino all’ultima stella/ e compaiono nuovi segni potenti da leggere,/ allora, gli occhi si spalancano per incredibile meraviglia,/ come quando un grande uomo vede chiaramente/ qualcosa che è più grande di lui>>.
L’umiltà è dei santi proprio come la meraviglia aperta sulla Visione.
Scrive Marco Antonellini: L’unità intrinseca dell’essere umano è, per Chesterton, l’unità stessa della storia che accade così come accade l’uomo. Il filo rosso che unisce questi elementi e che ha permesso che la storia di Alfred giungesse fino a noi è che egli ha combattuto “per la difesa della civiltà cristiana contro l’annichiulimento portato dai barbari”.
Il vertice del re Alfred sta nella nella salvezza non nella vittoria. Solo l’unione di passato e presente, come quel crocefisso della catenina della moglie Frances Blogg, permette  la decisività dell’esistere.
La cupezza dell’inizio del poema con l’avvento degli uomini <<dalle barbe scarlatte come il sangue>> o di navi sinistre che si <<profilarono nell’ombra / piene di un oro strano e di fuoco>> sono sentore di resistenza e di lotta ma è nell’interstizio tra il passaggio ombroso e la lotta che accade l’imprevisto, il movimento dell’Essere attraverso Maria, come una musica o una piccola casa <<abbarbicata tra le nuvole>>.
La conversione di un uomo non sfugge i temporali dell’anima e la sua certezza dipende da una piccola cosa che egli vede o che intravede, da una storia che lo precede e che lo fa diventare certo, fino a gettare il cuore oltre ogni apparenza sicura, quando sopraggiunge la notte e <<Il cielo si fa già più scuro e il mare si fa sempre più grosso>>.
La visione di Maria non lascia una pavida e calma sicurezza o il responso ad un esito, ma è quesito oltre il calcolo e le circostanze: <<Sai provar gioia senza un motivo, / dimmi, hai fede senza una speranza?>>. La speranza diventa quindi certezza nel futuro in forza di una realtà presente e implica un cambiamento, perché si ha ragione chiara del proprio destino, della propria evidenza, della propria stoffa.
In quell’attimo Alfred diventa uomo o meglio diventa sguardo d’uomo, in una compagnia di fedeli, come Eldred, aperto come il cuore, Mark e Colan, irlandese dai capelli fulvi, molto simile allo Stephen di Braveheart: <<Perché il grande popolo d’Irlanda, / è quello che Dio ha creato pazzo, / perché le loro guerre sono inni di Gioia / e tutte le loro canzoni sono tristi>>.
Il nodo e la messa a fuoco di Chesterton sono il guadagnare ciò che il cuore desidera. Il Cavallo Bianco,come scrive meravigliosamente Annalisa Teggi, traduttrice e interprete di questo poema-crinale: è per Chesterton immagine dell’uomo che non vuole lasciare “sola” nessuna zolla di terra; è immagine dell’uomo che sente, esistendo, di non essere semplice spettatore del mondo, ma attore. L’uomo partecipa del mondo. (…) il segno operoso di un’interrota tradizione umana che non solo guiarda la terra e si accorge della sua bellezza e bontà, ma che, soprattutto, lavora e fatica per dimenticarsene il meno possibile.
Si tratta di imparare lo sguardo: di vedere le cose svettare, come una battaglia decisiva e imprevedibile, la stessa di Alfred contro il nemico: <<Perché nella foresta densa di paure,/
come una strana folata che giunge dal mare, /lo sospinse quella antica innocenza/
che è molto più della destrezza. // E come un bambino i cui mattoni crollano/ si mette a sistemarli ancora e ancora, /vennero crolli e scrosci infuocati, /col tempo, che gira come una ruota, /e accovacciatosi tra le ginestre e le felci /egli cominciò la sua vita una volta di più >>.
Lo sguardo di Frances, sua moglie,  che è stato sfida di beatitudine e feritoia immensa di lucore, gli ha insegnato il sapore della salvezza, lo ha portato alla potenza della fragilità, come quell’immagine sulle colline del Berkshire, figlia di un sì vibrante: <<Gente se avete qualche preghiera, / pregate per me: / e deponetemi sotto una pietra cristiana, / in quella terra sperduta che pensavo fosse mia / e lì attenderò, finchè suoni la tromba del giudizio, / quando tutti gli uomini poveri saranno liberi>>.
Come un respiro di vento.