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Il Jukebox di Allen Ginsberg

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“Il piccolo borghese americano, che si sente tanto sicuro e potente perché ha quell’automobile frigorifero lavatrice televisione alloggio come tutti, in realtà è solo indebitato fino al collo per pagare le varie rate con cui se li è procurati; ed appena finite quelle, le rate ricominciano, perché automobile lavatrice frigorifero televisione alloggio saranno da cambiare. Allora va a vivere in provincia, dove ‘la vita’ costa meno e le tentazioni di spese superflue diminuiscono: si alza alle sei di mattina per prendere il treno e andare al lavoro, ritorna alla sera alle sette intontito da una giornata passata a fare un lavoro qualunque (al quale non partecipa se non in vista dello stipendio che gliene deriva), per riprendere forza beve un po’ di alcool (poco, perché costa caro), mangia una polpetta di carne ai ferri a una tavola non apparecchiata (o addirittura su vassoi di stagnola riscaldati nel forno e tenuti sulle ginocchia) e guarda la televisione; finché va a letto estenuato, annoiato, immeschinito, smidollato, rintronato dalla martellante propaganda televisiva verso nuovi sogni rateali, nuove schiavitù, nuove miserie camuffate. Ma convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili”. Fernanda Pivano scriveva questa introduzione nella primavera del 1964 a Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg (1926-1997) per i tipi Guanda, per combattere una distorsione e una mistificazione, di cui sono vittima spesso gli autori, come Ginsberg, poiché “raramente si parla della sua qualità poetica anziché della sua biografia o della polemica del suo contenuto, con la quale si tendeva a ridurne la poesia a semplice fatto sociologico”. Lo stesso Ginsberg scriveva: “Dovrebbero trattarci, noi, i poeti – alle spalle dei quali loro, i critici, si guadagnano la vita – con un po’ più di gentilezza mentre siamo vivi a poterla godere… Nessuno si interessa a quello che noi abbiamo in mente: non c’è che un mucchio di cattivo giornalismo che parla di beatniks e si camuffa da critica di gran classe (…) Tutti continuano a dirmi che non dovrei scrivere nel modo che scrivo. Che cosa vogliono, che scriva in un modo che non mi interessa? Proprio il modo che non mi interessa nella loro prosa e nella loro poesia… artefatta e ereditata e senza sorprese e senza invenzioni?“.

La poesia di Allen Ginsberg non è solo un delirio. È una realtà che grida. Attraverso un ritmo senza schemi, la musica jazz e una trascrizione sregolata e impulsiva, decreta un’esigenza interna, che è la necessità di far scaturire lo strazio in un grido, in uno struggimento violento, in una corporea porta aperta. Nei suoi blocchi e nei suoi nessi, si raccoglie l’impronta di un’epoca, che vive il mondo, che comunica le sue istanze contro materialismo, conformismo, meccanizzazione cieca. Si tratta di incendiare l’abitudine borghese, come scrive Vito Amoruso: “Gli atteggiamenti anticonformistici, l’omosessualità ostentata, l’alienazione e la pazzia programmaticamente sbandierata a épater les bourgeois, quello stesso voler apparire fisicamente diversi, nel vestire, nell’insolenza o nella mitezza cristiana della parola e del gesto, l’ironia paziente o aggressiva, sono tutti tratti di un destino d’uomo e di poeta che tende ansiosamente a collocarsi in un punto al di fuori del tempo e della storia, che concepisce il proprio essere qui ed ora come un doloroso passaggio, la necessaria e sgradevole tappa di un pellegrinaggio dell’anima verso la sua più vera sede”. La dissociazione di Ginsberg dalla propria collocazione del tempo è un’evasione da sé, dal proprio corpo, dai propri limiti e prigioni spazio-temporali. In questo tonalità, l’urlo rappresenta la protesta dello spirito, l’angolo che accende l’esistere, collocato in una realtà che si colora di grigio e chiude varchi: «Mi fu data una cuccetta e la biancheria necessaria / in un’enorme cella / circondata da centinaia di piangenti, moribondi uomini e donne. / Mi sedetti sulla mia cuccetta, tre file su / vicino al soffitto, / guardavo le grigie corsie in basso. / Gente vecchia, storpia, insensibile era / ripiegata a cucire. Una pesante ragazza / con un vestito sporco / mi fissava. Attesi / che venisse una guida ufficiale / a darmi istruzioni. / Dopo un po’ vagabondai lungo corridoi vuoti / in cerca di un gabinetto. Sogno 1948».

La lettura di Whitman, compiuta da ragazzo, la tensione di William Carlos Williams verso una nazione americana umile, quotidiana e il dettame “No ideas but in things”, recano nella struttura poetica di Ginsberg l’ abbandono della piatta normalità e l’ accensione delirante che vive di emblemi, di deviazioni, di grido: «Ho visto le migliori menti della mia generazione / distrutte da pazzia, affamate nude isteriche, / trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di / droga rabbiosa, / hipsters dal capo d’angelo brucianti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchi- / nario della notte, / che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su / imbottiti a fumare nel buio soprannaturale di / soffitte a acqua fredda galleggiando sulle cime / delle città contemplando jazz, /che si squarciavano cervelli al Cielo sotto la Elevated / e vedevano angeli maomettani illuminati bar- /collanti su tetti di casermette / che passavano per le università con freddi occhi ra- / diosi allucinati di Arkansas e con tragedie Bla- /kiane fra gli studiosi della guerra, / che venivano espulsi dalle accademie e / per aver pubblicato odi oscene sulle finestre del teschio, / che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate».

Il suo ritmo di uomo è qui. La dimensione autobiografica, il passaggio desolante delle immagini in sequenze e la ferita dell’umano divengono dimensione, non solo del suo mondo, ma di un trauma caotico, di una durezza pensante che non si censura, e che cerca mistiche illuminazioni in armonie frante e distrutte. La condizione del poeta, pertanto, rimane diseredata. Essa si scontra con il margine della sua voce: «America perché le tue biblioteche sono piene di lacrime? / America quando manderai le tue uova in India? / Sono stufo delle tue folli richieste. / Quando posso andare al supermarket a comprare ciò / che mi occorre con la mia bella faccia? / America dopo tutto siamo tu e io a essere perfetti non il mondo vicino». Il paesaggio squallido della civiltà industriale, l’opaca cupezza del mondo circostante, la solitudine nullificante della protesta, caratterizzano il passaggio di una ferita esistenziale mai risolta, il sacrificio distrutto verso una brutalità che percorre pazzia (come l’incontro con Carl Solomon) e mesto delirio.  In questa spirale, l’amore per il creato, come un pianto indifeso, offre l’unica sponda a un’adorazione racchiusa:  «Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! / Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo! Santo!/ Il mondo è santo! L’anima è santa! La pelle è santa! / Il naso è santo! (…) Tutti sono santi! Dappertutto è santo / tutti i giorni sono nell’eternità! Ognuno è un angelo!…/ Santo è il sassofono gemente! Santa l’apocalisse del bop! / Santi gli hipsters del jazz e della marijuana della pace / e streppa e tamburi! / Sante le solitudini dei grattacieli e delle strade!…/ Santa la soprannaturale ultrabrillante intelligente gen- / tilezza dell’animo!». Quando Ginsberg scriverà il suo inno kaddish per la madre Naomi morta in manicomio, camminerà sul filo della liberazione e del nulla, del passato e del presente, delle tenebre e della luce. Il suo atteggiamento poetico, nutrito di profezia e oscurità, è abitato da uno scontro e da una scissione che invoca l’attraversamento e il superamento dell’oltre, promette tensione e riscatto. Come maceria e canto tradito.