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Il miracolo annodato di Pierluigi Cappello

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Pierluigi Cappello (1967-2017) con Azzurro elementare, che raccoglie i testi poetici dal 1992 al 2010, per Rizzoli, arriva, dopo aver vinto i premi più prestigiosi, dal Viareggio nel 2010 all’Accademia dei Lincei nel 2013, fino al premio Vittorio De Sica per la poesia, assieme alla sua prosa autobiografica Questa libertà, ad esplorare la remota e luminosa distanza dell’essere attraverso il segreto mistero di una lingua isolata e cacciatrice.

La poesia che crea costellazioni, incide e intaglia il suo ventaglio di possibilità e di ferite, e lo stridore del buio che acumina la memoria per possederla, trovano nella sua voce potente, lo scompaginamento di ogni categoria e di ogni piccolo e nevralgico brandello, come egli scrive nell’Introduzione:

Libertà è una parola senza corpo. Come anima. Come amore. [...] Hanno bisogno di qualcuno che presti loro la sua carne, il suo sangue e i suoi limiti perché diventino concrete […] C’è la volontà di concretare delle parole astratte, nella libertà che ognuno vive a seconda del suo destino. Una libertà che va conquistata, ogni giorno.

Cappello pronuncia la sua lotta tramata e la grafite[3] che non conosce scappatoie, nelle fibre del suo essere che convergono in un annuncio di paesaggio e spazio interiore: «orientate le vostre prore dentro l’arsura / perché qui c’è da camminare nel buio della parola».

«Le sue parole», come scrive nella accorata prefazione Francesca Archibugi, «non sono dirette solo a chi sta leggendo; la voce tenta di stringere una relazione spietata con il proprio io, l’io narrante. Dai suoi versi ci affacciamo per vedere un mondo popolato che emerge dalle gole delle montagne friulane in un commovente e goffo cammino verso il futuro[4]».

Spesso, la vastità del cammino introduce lo spettacolo umano dove «né zenit né nadir / in nessun luogo mai» e dove le radici veleggiano nell’aria:

Piove, e se piovesse per sempre / sarebbe questa tua carezza lunga / che si ferma sul petto, le tempie; / eccoci, luccicante sorella, / nel cerchio del tempo buono, nell’ora / indovinata / stiamo noi, / due sguardi versati in un corpo, / uno stare senza dimora / che ci fa intangibili, sottili come un / sentiero / di matita / da me a te né dopo né dove, amore, / nello scorrere / quando mi dici guardami bene, guarda: / l’albero è capovolto, la radice è nell’aria. (Piove).

Impastato ai luoghi, all’origine, alla memoria d’aria, di cieli, di nevi, di svanimento ed epifania di monti, incide il suo vertice resistendo, sporgendo i suoi strumenti umani alla decifrazione del mondo, al segreto e appetito del suo essere, all’affresco e al “disastro” di relazione, come scrive Davide Rondoni:

La voce di Cappello può condurre tanti nello spettacolo di un uomo che sta conoscendo con verità e passione la sua unica e speciale posizione nel mondo. Il posizionamento dell’io, del mistero di se stessi, nel teatro meraviglioso e crudo del reale – dove ognuno insieme al poeta entra con le proprie ferite e storture, con i propri padri, stupori, ricordi, rabbie, abissi.[5]

Il percorso dell’indicibile, verso «l’evidenza delle cose ovvie quando all’improvviso si aprono e ti aggrediscono e afferrano il tuo sguardo, lo riportano alla prima nudità», coincide con gli occhi, immersi nel disastro e nel miracolo annodato e incommensurabile, con la nuda fattezza di cieli e di volti, verso i quali «ho soltanto i miei occhi nei vostri e l’allegria dei vinti e una tristezza grande».

Il passaggio delle ere e la consistenza delle cose annunciano la sosta di nuovi passaggi, l’eco di un infanzia viandante e selvaggia, solcata dalle ferite, incendiata da un amore pugile per la parola e dal suo ritmo inflessibile: «Quando sto con il mio silenzio nel tuo il mio silenzio splende di giovinezza e un mondo – che era nascosto – riappare»:

Dal mio giardino si vedono così e non si possono /spiegare / l’accordo dell’azzurro rarefatto e quello del verde / che sale e si fa spazio in certe mattine di maggio / quando il calore viene sulle braccia scoperte / e tocca il tendine d’azzurro e il tendine di verde / che credevamo spenti, nella nostra testa di oggi, / tanti anni fa. In mattine così, la terra si piega / e si anima in cose inanimate come i sassi / nel brulichìo nascosto dalle foglie, nel nostro / essere muti e felici di non avere un nome. / Forse daremo un nome a questa luce sugli occhi, / alla rondine scolpita dall’aria mentre passa, / all’ombra durata un battito sulle nostre mani; / forse saremo infanzia e chiuderemo il pericolo / nel nome del pericolo e allontaneremo le nostre spalle / dalla città abbagliata e splenderanno amate dal caso / e dal vento le nostre impronte quando qualcuno / chiuderà / il cancello dietro a noi, e ci guarderà partire. (Nel mese di maggio)

Ogni groviglio dell’esistenza si appropria di una gioia elementare, come l’azzurro che scandaglia il confine del tempo e dello spazio e trova la libertà, la postura del sentimento, la fragilità infinita della forza della morte e della vita: «Noi cantiamo perché teniamo duro / il nostro morire è per il nascere dei figli / quando cantiamo alziamo lontano / dal buio del bosco al cielo d’aprile / il fuoco del nostro sangue, per il domani».

Quando la poesia tocca il solco ampio e crudo della realtà permette di vegliare le nascite delle cose senza appropriarsene, le illumina liberandole in una stigmata di canto, cuore, visione, voce: «Per me la poesia è un fatto biologico anche se dovessi non scrivere più, se la poesia cessasse di concretarsi nei segni delle parole, rimarrebbe comunque dentro il mio modo di guardare le cose. Ogni giorno i nostri sguardi si riempiono di dettagli, che spesso trascuriamo. Ma nei dettagli si condensa uno slancio di libertà e di assoluto, che spetta alla poesia cogliere»:

Seduti, le gambe allungate nel silenzio, / uno a uno ci siamo portati i nostri giorni / solitudine con solitudine, impazienza e attesa; / e adesso che le tue spalle sono vicine alle mie / che il mio calore è il tuo, / quanto so dimenticare è nell’indugio / delle dita avventurate sulla tua pelle bionda, / sui tuoi capelli scuri, / nella paura che avvicina il nostro corso di scampati / senza rumore e senza / appello, come quando / il verde di marzo spinge dai rami / e si fa abbracciare dal mondo, / come quando l’aria vive nello screzio / degli alberi carichi di luce / e c’è penombra nella stanza, / e la pace del prato è nei tuoi occhi, / ci perdona, si stringe intorno a noi.

Il poeta che si figura «con l’ostinazione di un insetto dentro al bicchiere e riesce a far posto all’acqua che non c’era» approda all’essenziale («una linea che non c’è ma c’è, di una semplicità che non ammette errori / il segno sul quale piegarsi per decifrare»), dove i nodi si appropriano degli orli, per rilucere di nascosto, varcare l’oscuro, allitterare il mistero, in una grafite di matita tesa alla all’ascolto: «Scrivere come sai dimenticare / scrivere e dimenticare / Tenere un mondo intero sul palmo / e dopo soffiare».

Il panorama aurorale di Cappello è una collocazione di istanti precipitati nell’altrove[6], il frammento imminente del vasaio che porta con sé i detriti della storia e l’incanto vergine di un dialogo continuo e discontinuo insieme, attraverso l’idioma incarnato della sua terra, il friulano, che acquista, nel suo sporgersi congedato sulla realtà, una ricchezza di nominazione e interpretazione, di gioco e di rinvio mancato, dove poter amare, ridere, piangere e mandare il proprio numinoso disorientamento e precipizio, dissepolto nel sole: «Padre io a te / io inchiodato a te su questo scoglio / divino che conosci la tua alba / e allacci la tua potenza al fulmine / da questo culmine di spasimo / io vinto mando a te / vincitore di padri / la prora disorientata delle mie parole».

Il mondo riapparso riporta l’imminenza dell’avvenimento al fulgore, dopo i detriti del congedo e la carsica nudità delle cose si impone in tutta la sua forza:
Le nove, la sera, e un poco il nero che ti sporca le mani / è tutta la terra passata di qui / a che ora le api vanno a dormire, pensi, ti chiedi, / premi il cavo del palmo sull’orlo del ginocchio / nel dirti senti come sono nuove le foglie / da quale maniera di essere solo sono volate / adesso guardi le cose come sono venute / come si sono fissate, quando nella tua persona / e appena pieghi la testa nel vuoto, / nella domanda a che ora le api vanno a dormire / quando sono passati il sapore di terra e le nuvole / davanti ai miei anni, insieme. (Sera)

Il cuore della poesia è una conoscenza nutrita di stupore concentrata che rievoca le connessioni di un tempo senza fine, in cui il mondo trova movimento e fibra. La densità mutata libera presenze addensate, segni possibili, sguardi che si pronunciano, calore d’alito e traduzione rarefatta della parola in silenzio:

Da lontano vengono agli occhi il cielo / e le mani, da qualche parte lontana di te; / fuori nevica, sei tutto nel bianco della neve / ogni segno nel candore una ferita / e la campagna di là dai vetri è un corpo / un breve sguardo che si fa pronuncia / calore d’alito, la testa in mezzo alla veglia; / torna là, nella parola tradotta in silenzio / dove si annidano i passeri / i palmi sugli occhi, il petto sulle / ginocchia / la fronte nella neve. (Bianco)

La nascosta e chimerica sostanza riappare in un frangente incendiato come lumine scaleno d’ambra:

Compunto, quasi un monaco, d’amore / lascio le carte, vado verso dove / il sole fra le tende alle finestra / è smania, lumine scaleno d’ambra / sull’angolo del tavolo o una sosta; / scosto le tende, roveti dai vetri / e da me stesso e il mordere dell’ansia, / fuori il ciliegio è immerso nel sereno / ma dentro il sole, fertile nell’aria / trema ogni foglia che non è piú foglia / e la foglia che era adesso va via / e salpa la sua prora d’allegria. (Dietro i vetri)

O ancora:

Quando la passione dura, tutto un mondo / scompare / e la tua mano non è più la tua mano / e la mia mano non è più nella tua. / Quando sto con il mio silenzio nel tuo / il mio silenzio splende di giovinezza / e un mondo che era nascosto riappare. (Anello).

Scrive Andrea Ponso:

La scrittura di Pierluigi Cappello pare nascere da questa sete precisa e, attraverso una conversione che è in realtà un viaggio dentro tutto l’esistente, ritorna a noi intatta, mai appagata: con la stessa luminosità del primo sguardo, capace di farci sentire il bisogno ma anche il profilo luminoso di ciò che ci manca. Come chi è rimasto troppo tempo in balia dei terremoti reali e simbolici dell’essere qui, ora e domani, la sua lingua non vuole e non può nascondersi sotto al tavolo di legno pesante ad ogni scossa, ma è costretta ad uscire fuori dalla casa: per paura, certo, umanissima paura, ma anche perché non si può morire immobili – perché fuori c’è tutto da vedere, perché fuori c’è comunque quell’uncino lancinante e dolcissimo degli altri, di una possibile e necessaria relazione.

Gli oggetti, i volti, i passaggi cromatici affermano la nudità del loro transito e matrice epica, non amano nascondersi, ma si rivelano in un assetato bisogno, all’interno di una rapporto di esposizione all’ascolto dell’umano, al battito della sintassi, alla potenza concreta della visione che illumina le feritoie del «buio della parola» nell’odore denso d’amore:
Il cielo era verde di freddo tra gli aghi dei pini / e qui non c’è nessuno, l’umido salito dalla neve / si intrama nell’odore dei vestiti bagnati / hai stretto per sempre il manico dell’ascia / all’altezza / dell’intaglio, tre asterischi, le iniziali / e una data / e la dignità delle tue mani si è svenata in dolcezza / adesso, tra la polvere e il dominio, dove hai / incontrato / te stesso in chissà quale bosco dei miei occhi / quando ti sei voltato e mi hai detto, dio, quanto / sole / così lontano, diverso, quanto  / ad uno ad uno / i giorni / stringono il cuore e separano. (In quale bosco).

Il ritorno della luce toccata condensa e raccoglie passi radicati e veglie, profili di labbra chiuse, battiti di giorni alla finestra, offerta del proprio essere millesimo, fino alla pietra aperta, fino alla luce toccata:
A Chiusaforte Silvio intrecciava canestri / con mezzo cuore e il cuore dei bambini intorno / io dico ti ho visto nella mia veglia / nel respiro acceso dell’alba / tra il fischio e il silenzio / e le dita andavano di vinco in vinco / come un’acqua nervosa, una spiegazione raccolta / nel tempo dietro questo tempo a mezza veglia / siamo venuti, io con le pupille di bimbo / e allora trattieniti adesso che torno / dentro il tuo odore di povero / nei boschi dove andiamo si dice con lo sguardo / le labbra un profilo chiuso, il passo un passo radicato / qui, dove sono ora, nel battito del giorno alla finestra / nel sonno lasciato, nel millesimo di me / dove ogni debolezza è stata offerta / la pietra aperta, la luce toccata. (La luce toccata).

Sul finale del libro, in un poemetto, La strada della sete, la potenza secreta dalle immagini afferma un abbandono crudo e violentissimo a qualcosa di esterno: una figura dai capelli «che avevano la consistenza della luce / e sottili e lunghi erano un corpo solo con l’aria o della linea / delle braccia che le accompagnava i fianchi con la dolcezza / di un soffio su uno specchio d’acqua».

Il miracolo annodato riscopre una nuova evidenza e accertamento,come qualcosa di reale, un tu invocato, gridato e desiderato che avvolge la sua prora, sporta sul buio e discorsa:
Qualche volta, piano piano, quando la notte / si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie / di silenzio, / e non c’è più posto per le parole, / e a poco a poco si raddensa una dolcezza / intorno / come una perla intorno al singolo grano / di sabbia, / una lettera alla volta pronunciamo / un nome amato / per comporre la sua figura; allora / la notte diventa cielo / nella nostra bocca, e il nome amato / un pane caldo, spezzato. (Da lontano).

Una presenza incommensurabile, come la rincorsa all’inconosciuto che si attesta, irrompe e infine si svela:

Escono le mattine della domenica / dopo che tanto è piovuto / e la festa splende nel sole dissepolta; / alzano la gaia concitazione / delle partenze al mare / al giro di ogni nuova mandata / e allo scatto del portone corrisponde / l’ombra nel fruscío di una tendina; / chi rimane è un viso che si sporge sulla rivalsa di chi parte / stanno uniti cosí, nei giorni piú luminosi, / lo scorto e chi scorge / come labbra mai bagnate da un bacio. (Condòmini)

PIERLUIGI CAPPELLO

Azzurro elementare

Poesie 1992-2010

Rizzoli, pp.244. Euro 10,00