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Il prodigio oscuro di Francesco Iannone

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La favola oscura di Francesco Iannone (1985), Arruina[1], edita da Il Saggiatore, ci consegna, in una oscurità identitaria, un tempo archetipico che condensa i passaggi dei giorni, una maternità fragile e tropica, e una metaforizzazione arcaica.

Francesco Durante scrive:

«Poeta, prima che narratore, è del resto pure Iannone, e si vede. La sua prosa ha il tono febbrile di una declamazione o di una formula misterica, e un lessico che ispessisce le immagini, spesso per flessione dialettale, mutandole subito in volumi, pesi, corpi. Non per questo si nega al racconto: la favola è sì oscura, ma va avanti, come si addice alle favole. E ha perfino un lieto fine»[2].

Il suo prodigio lirico pedina forme originarie, attraverso un racconto mitico che, riprendendo ciò che Jung chiamava «una struttura intemporale dell’inconscio dell’uomo[3]», si muove in un territorio ancestrale e popolare attraverso una vitalità di tenebra, che richiama alla fonte primigenia dell’essere.

Il romanzo di Iannone, dunque, se da un lato privilegia l’ambiente contenitivo della Grande Madre, che come scrive Irene Battaglini, «nulla rivela del mondo interno del Grande Archetipo, lo conchiude e lo rende un terreno fertile, simile ad una serra in cui fioriscono tutte le piante, da quelle più olezzanti alle più terribili e velenose. Non è consentito accedervi senza aver compiuto un viaggio iniziatico, nel suo mistero[4]», e il “soggetto” «viene al mondo per parto, separazione psichica, gemmazione, ma avverte sé stesso come “gettato”, rescisso per partenogenesi, oggetto parzialmente atto alla vita, come un arto, che, dopo l’amputazione, necessita di una soggettività in nuce, fin tanto che non viene attraversato dal fiume (junghiano) dell’individuazione[5]».

Dall’altra, nella soggettività primaria e simbiotica, il soggetto, dunque, avverte la gettatezza dell’uscita del grembo, la sua trasformazione, la sua obliquità terragna e la sua divisibilità.

Il racconto che si muove attraverso il tentativo di due genitori di riprendersi la Sperduta, una bambina di Acquavena, un piccolo paesino smarrito, che è stata rapita dalle Nerissime, streghe millenarie e diaboliche che hanno acquistato l’immortalità grazie alle acque di una fonte in Roccagloriosa, alla fine della terra, che la rapiscono per sacrificarla. Sarà la rovina. Arruina, appunto.

La nascita di questa bambina rappresenta il compimento di una profezia, resa nota dalle vecchie del paese e dalle loro «oscure maestà sepolte nei canali delle palpebre», che ne prosciugherà la fonte:

«Nascerà una bambina, e avrà il tuo sangue, e il tuo sangue ti giudicherà. Lo dice il vento che nascerà, lo dicono le voci di tutte le donne gravide nei letti. La tua bambina nascerà e con lei nasceranno altri bambini. E le loro madri soffriranno motlo, e le sentirai sgravi dare in solitudine, maledire le poltiglie precipitate fra le loro gambe. Piccoli luminosi cumuli di carne» (p.9).

Il mondo narrato da Iannone, pur avendo il segno della rovina incerta e nitida, cadenza, come battito, la cifra del prodigio e del rito, unisce il male della disunione e della scomposizione separata al tentativo di ricostituzione di uno scenario sperduto, come un fiato oltre il vetro.

Nel 1924, lo psicoanalista Sándor Ferenczi affermava:

 

«Alcuni aspetti del simbolismo dei sogni e delle nevrosi suggeriscono l’esistenza di una profonda analogia simbolica tra il corpo materno e l’oceano da una parte, la terra-madre “nutrice” dall’altra. È possibile che questo simbolismo esprima innanzitutto il fatto che l’uomo, in quanto individuo, prima della nascita risulta essere un endoparassita acquatico e, dopo la nascita, per un certo periodo, un ectoparassita aereo della madre, ma anche che, nell’evoluzione della specie, la terra e l’oceano avevano in realtà il ruolo di precursori della maternità e costituivano essi stessi un’organizzazione protettrice, avvolgendo e nutrendo i nostri antenati animali. In questo senso, il simbolismo marino della madre ha un carattere più arcaico, primitivo, mentre il simbolismo della terra risale a un periodo più tardo, nel quale il pesce, gettato sulla terraferma dal prosciugamento degli oceani, doveva accontentarsi dell’acqua che filtrava dalle profondità della terra (e che costituiva nello stesso tempo la base del suo nutrimento); in queste condizioni ambientali favorevoli il pesce ha potuto sopravvivere, per così dire da parassita, per tutto il tempo necessario a realizzare la propria metamorfosi in animale anfibio».[6]

 

E poi c’è l’acqua. A volte malmostosa e infida, quasi un anteposto infedele della sua natura, rappresentando l’immortalità di buio delle Nerissime, legate ciclicamente alla loro fantasmatica apparizione, e, in particolar modo, all’aspetto inquietante dei suoi cardini ancestrali e uterini («Dobbiamo attraversare la casa e provare a uscire. Questa casa è un utero e mi manca l’aria. Quest’aria è gonfia d’acqua e mi occlude le narici e mi tappa la bocca dell’esofago»), come una lunga fuoriuscita di vita e sogno, morte e crosta, luce fondale e grido, mormorio rude: «Nacque in un grigio giorno, le guance delicati, dentini friabili di zucchero, il naso oblungo, le dita dei piedi a martello, nacque in un giorno che la terra, la nuda cosa esposta al mondo, che la terra era il suo grido anche, era la melma, l’argilla, la lacrima […]» (p.29).

Irene Battaglini scrive: «Mater mundi rievoca l’idioma primigenio; col prefisso ma- di materia e magma, che si scandisce col primo vagito e la prima richiesta, definisce dapprima la sub stantia universale, la terra di cui siamo partecipi, quindi ritrova l’energia indifferenziata, illimitata e totipotente, che ci permette di progredire senza sosta».[7]

Vi è il mondo creaturale ed estremo della Briganta, come un proscenio di dolore e crampo che chiede «che ogni corpo ritorni, perché ogni corpo è la casa della madre», l’ombra delle Ianare, la voce del Poeta Antico e la sua piaga che duole di notte e si accorda al respiro delle cose, le voci sommerse come mondi di buio a cascate, e, infine, la Sciangata.

Il cosmo di questo libro è devastato, percorso da un rigore di terra denutrita, antica, inerme, ricolma di calcinacci, sgrezzata ai passi come un dettaglio di ciglia: «Vedo i nervi delle radici spaccare la scorza delle zolle. E stridono le foglie come una rugginosa creatura di ferro. Di pietra in pietra, da sciame ad ala, da pulviscolo ad antenna, vedo un bagliore di mandibola nuda, di ossa splendenti. E pure vedo la bocca di tenebra chinarsi sul limo, e un massiccio baccano di carovane comincia fra i cespugli. Non posso piangere, mi dico. Non posso morire».

Ma la trama dei risvegli è lanugine di alba. il mattino è caldo, destato dal torpore del sonno.

 

[1] Iannone F., Arruina, Il Saggiatore, Milano 2019.

[2] Cfr. Durante F., La bimba rapita dalle streghe nella favola oscura di Iannone, in “Il Mattino”, 21 aprile 2019.

[3] Cfr. Jung C. G., 1972

[4] Serino V.-Battaglini I., Jung e l’archetipo della Grande Madre. Viaggio antropologico e psicodinamico nella dimensione dell’Eterno Femminino, Pontecorboli, Firenze 2018, p.69.

[5] Ivi, p.70.

[6] Ferenczi S., Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, in  Opere. Volume Terzo 1919-2016, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 266.

[7] Serino V-Battaglini I., cit., p.72.

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Iannone F., Arruina, Il Saggiatore, Milano 2019, pp.155, Euro 20.

Iannone F., Arruina, Il Saggiatore, Milano 2019.

Astegiano D., Arruina di Francesco Iannone, (https://radicalging.wordpress.com/2019/04/26/arruina-di-francesco-iannone/?fbclid=IwAR1eYn2vJVXFbWTq8g3IIV_BU78GZ6zGfzTMCfZmpP82C_E8MXE1biCEGsk), 26 aprile 2019.

Durante F., La bimba rapita dalle streghe nella favola oscura di Iannone, in “Il Mattino”, 21 aprile 2019.

Jung C.G. – Kerenyi K., Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino 1972.

Serino V.-Battaglini I., Jung e l’archetipo della Grande Madre. Viaggio antropologico e psicodinamico nella dimensione dell’Eterno Femminino, Pontecorboli, Firenze 2018.