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“In Bruges. La coscienza dell’assassino” di Martin McDonagh

Ray e Ken sono due killer che, al fine di far calmare le acque per un “incidente” di lavoro, si rifugiano in Bruges. Però, mentre Ken si fa una ragione di quest’esilio forzato, apprezzando la città fiamminga, l’altro recalcitra e si dà da fare. Ma il loro boss ha in mente ben altro. Già l’ambientazione è insolita: l’elegante città belga, da cui il maturo killer resta affascinato, sospesa sui suoi canali, come Venezia, ha però la concretezza di una benestante città di provincia, piccola e a misura d’uomo, anche se incastonata nella storia. Lo sguardo del regista inglese è tipicamente europeo: è attento al fascino della storia e della bellezza che promana dalle cose immerse in una memoria materiale, fatta di un passato che è ancora in mezzo a noi. L’aggirarsi in mezzo a quelle vestigia, per il “vecchio”, è come un viaggio di scoperta in se stesso. Per arrivare a domandarsi le ragioni del suo esistere e del suo rapporto col più giovane killer, nei confronti del quale egli sente di doversi assumersi delle responsabilità di “formatore”, non solo rispetto alle tecniche di morte. Il film si sviluppa in modi molto articolati: si vede con chiarezza una qualche sua ascendenza teatrale. Innanzitutto perché la narrazione è giocata molto serratamente sui tre personaggi principali, che occupano tutto lo spazio gestuale. Le loro trasformazioni si attuano in un complesso gioco di rimandi interpersonali, in cui prendono forma i forti momenti di conflittualità, che  variano le connotazioni di personaggio fino ad allora sostenute: le classiche “scene madri”. Ma queste non appesantiscono il fluire della narrazione, che è anzi vario e arioso, nonostante ci sia come una tentazione di chiusura claustrofobia, perché quello scontro permanente potrebbe portare ad una dimensione di delirio, del resto accennato. Il regista, che comunque viene dal teatro inglese in cui ha collezionato una serie impressionante di premi, immette il valido gioco di attori in una struttura di sceneggiatura molto precisa, ben strutturata nelle sue parti, in modo da calibrare con esattezza ed efficacia di tempi, i passaggi da una situazione comico-ironica ad un’altra di commozione umana e perfino di dramma. I passaggi sono posti nella cornice “parlante”di questa misteriosa città del nord, che certamente si presta ad una dimensione composta di più strati, come sono le vicende di questi esseri. Ovviamente, il gioco si regge sul manipolo di attori di cui il film si serve egregiamente. Tutti della più moderna e internazionale “scuola inglese”: il ribelle C.Farrell, il compresso R.Fiennes, e soprattutto il navigato e intenso B.Gleason.

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