Itaca Ebbra di Bia Cusumano (Interno Poesia) si impone già dal titolo come un’opera densa di risonanze simboliche: Itaca, il luogo del ritorno, la parola-soglia, la meta epica e insieme intima che segna il tempo; ma qui diventa ebbra, attraversata da un approdo che si fa oscillazione, dal mito che si incrina, dalla certezza che vacilla. È l’isola dell’anima, ma anche del corpo che ha smarrito l’equilibrio. È patria e naufragio insieme.
Il viaggio di Cusumano è quello di una donna che attraversa la vita con il peso della memoria e la sete dell’origine. La sua poesia nasce dalla ferita e torna alla ferita come a una fonte. È un canto che ha il passo della confessione e la densità di una terra che brucia, una regina altera che custodisce la memoria di un amore ferito, un’isola che diventa metafora di un corpo, di un destino, di un dolore irriducibile.
Anna Segre, nella prefazione, individua con precisione la tensione fondativa della silloge: l’incontro tra l’enfasi dionisiaca e l’istanza apollinea, tra l’intensità del sentire e il tentativo di dare forma a quell’energia. Nei versi di Cusumano, l’elemento emotivo è incandescente — abbandono, passione, perdita, desiderio — ma la forma resta vigile, cesellata, con una cura quasi musicale per la misura del verso, per il ritmo interno delle immagini. La poesia diventa, così, strumento di risarcimento e di rinascita: «Così sono risorta / dalle mie stesse ceneri», confessa. La parola è insieme sigillo e spada, protezione e arma, gesto di cura e atto di resistenza.
La raccolta si apre con “Ciò che resta”. Un inventario della perdita dei giorni concreti, un attraversamento delle memorie attraverso la geografia del dolore, tracciata con la precisione di chi non vuole dimenticare. Qui la poesia è carne e realtà: la violenza l’amore, il corpo che si difende e si riapre.
Cusumano scrive dell’amore come di un esercizio di sopravvivenza — “L’amore non ha altra legge che desiderio di pelle” — e della violenza come di una ombra che non si lascia cancellare. Ma non c’è autocommiserazione, mai: c’è resistenza, c’è la volontà di ricomporre un mondo attraverso la parola. La poesia diventa casa, rifugio e balsamo: «non sai che le parole mi hanno salvato / dai chiodi nelle viscere».
Qui la voce poetica si misura con l’amore mancato o tradito, con le relazioni interrotte, con la violenza, con le periferie del corpo, con la memoria di figure care e luminose (vittime della storia come Rita Atria).
Gli oggetti quotidiani diventano ferite materiali — «La sera è una guerra / feroce di oggetti» — e la scrittura è costantemente intrecciata al corpo e alla sua vulnerabilità: «E questo agosto ridisegna / E questo agosto ridisegna / cose lontane e perdute. / Lucertole stirate al sole / in attesa di mutare colore / e canne bruciate / che sono rotaie antiche, / deragliate di un treno. / Si smarrì tra i roveti / e i cocci di pietra che inchiodarono / i miei piedi alati».
Nella seconda parte, “Itaca Ebbra”, la scrittura si solleva verso il mito. Ulisse e Penelope riappaiono, ma sono creature nuove. Penelope non tesse più per l’attesa: tesse per sé, per restare viva, per ritrovare il filo della propria identità. Ulisse, invece, è l’uomo che fugge da sé stesso, che torna senza saper restare. L’isola, allora, non è un porto: è un corpo ferito, una terra che vibra di orgoglio e silenzio incandescente: «A Itaca resto, altera regina d’incanti e prodigi. / Il mio cuore non conosce inganni e resta muto».
La poesia di Cusumano respira nella materia e nel simbolo. È fatta di mare e cenere, di pelle e stelle, di tazze e di vento. Ogni verso si apre come un frammento di realtà vissuta e trasfigurata. Il lessico è limpido ma viscerale, come una parola che non vuole tradire la sintassi di carne da cui è nata. Ci sono anafore che diventano preghiere, ripetizioni che suonano come battiti. La voce poetica non chiede perdono né compassione: chiede presenza. Eppure, sotto la superficie della ferita, si sente una dolcezza che sopravvive. È la dolcezza di chi sa ancora guardare il mondo con stupore. Itaca Ebbra è un libro pieno di ombre, ma anche di carezze: un dialogo fra la devastazione e la bellezza. Ogni poesia è un piccolo rito di memoria: le donne che l’autrice nomina — amiche, eroine, vittime, testimoni — diventano una comunità silenziosa che veglia su di lei. La poesia si fa allora sorellanza, genealogia, canto corale.
Il mito omerico, che attraversa la seconda sezione, non è una semplice allegoria: è una chiave di conoscenza. Penelope, figura del femminile resistente, diventa archetipo della donna che non smette di credere nella verità della propria voce. L’ebbrezza del titolo non è solo quella del vino o della passione, ma quella del linguaggio che travalica i confini del dicibile. È l’ebbrezza di chi ha guardato troppo a lungo il dolore e ne ha tratto una forma.
Cusumano scrive da un luogo in cui il corpo e la parola coincidono. La sua poesia è fisica, concreta, ma insieme trasfigurata da una forza quasi mistica. È una lingua che non si concede all’astrazione, che resta fedele alla vita anche quando la vita brucia.
Itaca Ebbra è il frammento lucente e perfetto che parla di ciò che resta dopo la tempesta: la voce, la pelle, il silenzio. È un libro di sopravvissuta e di veggente, di madre e di amante, di donna che ha fatto del dolore una casa temporanea e della poesia il modo di riaprirne le finestre. Alla fine, ciò che rimane è la parola come atto di fedeltà. Fedeltà alla ferita, ma anche alla possibilità della gioia. Perché «Non si nasce se non dal dolore, / non si dona se non per mancanza, / non si cerca l’acqua se non per l’arsura. // Sono la donna della cenere e delle mille vite». In quella arsura, nella sete che non si spegne, vive il cuore di questo libro.
Itaca Ebbra non ci restituisce il ritorno: ci insegna ad abitare la distanza.



