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Jolanda Insana e la sciarra dell’esistere

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«Pupara sono / e faccio teatrino con due soli pupi/ lei e lei/ lei si chiama vita/ e lei si chiama morte».

Questa limpidezza  precisa e nitida  è la piena della poetessa messinese Jolanda Insana (1937), che nei lampi e nelle provocazioni tocca le pareti della lingua, all’altezza di un passaggio indicibile, di una frontiera di litanie.

Il linguaggio di Jolanda Insana ama il teatro della terra, come il dialetto che borbotta e inscena danze, provoca balbettii e borbottii, e dolorosamente e provocatoriamente, sfrutta il linguaggio come emersione sopravvissuta e ininterrotta. Lei che «conobbe la guerra e i fichi secchi, e dunque predilige parole di necessaria sostanza contro il gelo e i geloni», la sciarra amara dei fendenti fonici che pone in essere  le viscere della lingua che non si piega, che frequenta le smagliature di un limite e di un mito unico e assoluto, cupi e sorridenti.

Giovanni Raboni, che ebbe il merito di scoprirne la profondità scenica e violenta, accogliendola nel Primo quaderno collettivo della Fenice, nel 1977, scrive:”…dietro o al di là della beffa, dietro o al di là dell’acuto, atroce sarcasmo, è in ogni caso, e senza scherzi, questione di vita o di morte: ed è questo, certo, a far circolare nella poesia della Insana, nel suo personalissimo impasto di sostenutezza aulica e gesticolante allegria dialettale, nel suo epigrammismo che per naturale paradosso tende a farsi voce ininterrotta, declamazione, poema, una vena di minacciosa, rabbrividente cupezza”.

Il suo gesto espressivo, se da un lato tende alla ricerca e alla sperimentazione spavalda e libera, dall’altro compone il tessuto di una passione e di una compassione che si aprono al coro, al tempo percussivo, alla loro “concretezza etica”, per citare ancora Raboni.

È nella rappresentazione della parola che il suo magma poetico trova la forza e il suo abbandono, il neologismo che si fa arte e intreccio, la declinazione accesa della lingua che abbraccia il tempo della metafora visionaria, il lamento sfinito di suoni e figure luminose e dense: «è la vita che mi mette in questi buchi/ per scalciare sui lunghi assopimenti/ e manca l’aria manca il ghiaccio manca/ frughinda-frughinda fu il gioco fanciullo/ e però negate troppe cose è troppo poco questo troppo/ e non concedo che per una manciata di cenere/ per in fertilizzare il terreno/ un altro si mangi il grano duro da brigante/ e usi il fiato per zaffate di lagno/ mentre sono intenta a sterrare la gramigna/ con le scarpe scalcagnate e la testa stretta in nodi/ finchè si scolla il mantello e devasta il risveglio».

L’invenzione della parola è trasformazione e morte, puro suono, gemma manchevole di una inadeguatezza e di un bagliore che feconda, trova destinazioni di sogno e di limite, gronda di un passaggio arcaico e originario, e solo nel corpo della terra, nel corpo sociale e, infine, nel tempo e nello spazio trova libertà e scrittura.

La sottile sostanza della Insana discende fiera in un monologo  di compostezza e attrito formale, anzi permea l’equilibrio di un lessico ampio e fertile, in un realismo che è spirito esigente e tradizione racchiusa.

Nadia Fusini ha notato, come la poetessa lavorasse “esattamente nella ferita che si apre nella sciarra come nell’ironia. Lavora cioè in quella fenditura che scava una distanza tra l’io e la vita, distanza del resto irreparabile” e per continuare con le parole della Insana: «E quel che linguisticamente è masticabile diventa suo cibo, e se non trova da masticare, inventa. (…) E perciò si inabissa negli inferi del dizionario ma riemerge con più fendenti di prima e gioca d’azzardo con vista sullo strapiombo, con sgomento, indignazione e corporale compiacimento…».

«La tagliola del disamore», proscenio di figura materna, scardina il tessuto del verso, lo rende folle, lo aggredisce in una velocità senza pause, come un battito veloce.

Il mondo viene colto in un trapassamento, ma con devozione, si scopre la trasgressione delle sue alterazioni, che come annota Niva Lorenzini “sfiorano dimensioni magiche e archetipiche: l’effimero, il residuo, il nulla si trovano investiti da un formulario privatissimo, aggrediti da malocchi verbali, che dalla citazione derivano pathos e concretezza etica, terrore e straniamento parodico”.

Per l’Insana: «non c’è altra parola che la semplice parola / ma s’infinse di non sentire / e mi lasciò con le braccia aperte / credendosi il padrone che s’abbuffa di libertà / e sputa servi incatenati // sono qui e non sono ammutolita e sciacquo il tempo / per acquistare tempo / commisurando le proposte sgradevoli / all’incanto sottile delle sete».

Parola come sabbia, sputo, fiato, limite di presente e futuro, gioia di ritrovata riappropriazione. I suoni che si impregnano di memoria, per ubriacarsi di tempo e pertanto «si avviano al calvario / portando la croce / e morte escono dal dizionario».

Scrive acutamente Emanuele Trevi:Queste memorie non “procedono” in nessuna direzione; semmai sembrano ruotare intorno a un perno fisso, una figura di madre-chioccia che consuma e sfibra la sua esistenza per proteggere e sostentare i suoi piccoli, evocata nel suo aspetto fisico e nel ricordo di una saggezza amara, votata all’autosufficienza e al disinganno, da trasmettere ai figli con la stessa premura del cibo”.

È in gioco l’identità della scrittura, il suo percorso dolce e inesorabile, il danno gioioso del limite del riposo e dell’accecamento, del bradisismo: «Nella turbolenza del pieno il corredo della natura/ acido e infetto appare e dove non c’è/ battaglia contro gli iniqui spurghi/ non c’è virtù di passione né vittoria// è qui che bisogna durare dove cova il grano e l’insalata/ nel tempo arbitro e arato/ per non immaginare fermo sui piedi l’evento che fluisce».

La tensione lessicale come il verso che forza le sue epopee, in una gesticolazione alta, primitiva, articolata. È come sfidare la realtà a pronunciarsi o a zittirsi, ad alzarsi nelle storture bivoche.

Anche nella sua ultima raccolta Turbativa d’incanto (2012), pubblicata da Garzanti, la parola, che aveva conosciuto l’assenza e la fisica della mancanza apre il suo portale allo sfondo di una biologia flessa, con «voce scura di contralto».

In una bellissima recensione, apparsa in «Alias-Domenica» supplemento letterario di «Il Manifesto», Cecilia Bello Minciacchi scrive: “la “turbativa d’asta” dello splendido titolo, amplificata semanticamente dall’incanto che ha significato secondo e getta luce all’indietro, rendendo “turbamento” la turbativa. E se d’incantamento non si può parlare, se le trame indebite si fanno più fitte, allora s’impone e spadroneggia il reale, spoglio d’ornamento e d’inganno”.

Il processo di interiorizzazione e esternazione afferma il vertice intriso di una lingua spessa e distorsiva, ma allo stesso tempo, essenziale e ostile.

Conosce il ritmo della storia, l’eco dell’orrore e il tremore di un disagiato corpo a corpo con la vertigine poetica: «noi siamo ciò che diciamo / e tu dici narcisate / sodalizi criminali / paranza di banditi». Il disincanto non ama la folla, ma nasce solo da una vertigine fisica e da una sproporzione, con la voluttà di una realtà da scardinare, per frequentarla e amarla.