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La marea di Philip Morre

morre [1]

La raccolta di Philip Morre (1952), poeta londinese ma che ha vissuto in Italia per gran parte della sua vita adulta e negli ultimi anni a Venezia, dove ha tenuto una libreria di libri usati nel Ghetto, Istantanea di ippopotamo con banane[1], con cura e traduzione di Giorgia Sensi e prefazione di Patrick McGuinness, restituisce il tempo della domanda elementare.

La sua elementarità essenziale è una sospensione, persino del giudizio. Una sospensione cerebrale che ama entrare nelle dinamiche del reale, incrociando l’incandescente di urbanità e ansietà, come afferma McGuinness nella prefazione.

Dietro l’apparente nonsense, nella vitale cura delle immagini e nella perfetta incastonatura di senso, Morre compone la sua marea di interrogativi e rievocazioni, incantando il sillabario dell’essere e dove la concrezione dei dettagli occupa ogni scandaglio di pagina.

Come il tarbush che diventa particolare acceso che irrompe:

«Lo diceva spesso lui che amava insegnare, / amava, infatti, i giovanotti (niente di sconveniente / intendiamoci), quelle braccia nude abbronzate, / gli indicatori sociali delle loro penne e delle sneakers… / E pensava, giustamente, che anche loro lo amassero. / “Quando ero all’asclepeion,” diceva, / “a Kos, uno studente come voi…” e poco dopo / tutta la classe, anticipando il resto, avrebbe cantilenato: / “a Kos, uno studente come noi”, e lui era arcicontento / dell’affetto dietro alla presa in giro. Chi di noi / non è, da vecchio, una parodia di sé stesso? / E chi non crede che l’ippo sia una creatura / benevola? La sua disegnatrice più brava, diec’anni fa, / aveva ritratto un ippopotamo a cavallo di una pila / di casse di banane (come quelle che trovi abbandonate dietro al mercato a mezzogiorno), / che da allora era rimasto inchiodato sopra la porta. / “I pachidermi mangiano banane?” Cercava sempre / di estendere i limiti della conoscenza, lui. / La sua unica paura era, paradossalmente, di / esser stato fin troppo bravo, non per sé – la fama / in tempi incerti è una forma di passaporto – / ma per loro. Pendevano troppo dalle sue labbra, / si rifiutavano di metterlo in discussione, di contestarlo. / Immaginava il suo alunno migliore, decenni dopo, fare / la stessa identica lezione: “Quando ero all’asclepeion, / a Larissa, con Ippocrate, uno studente come / voi…”, e tutte quelle belle domande / ancora senza risposta: Dove risiede l’anima? /  Gli ippopotami mangiano banane? / Il sangue è una marea?»

Il paesaggio e la storia, il tempo dell’atto e il gesto vivente del verso, il cuore della parola e il ricordo si legano in una partitura mentale che procede per leggero accumulo piuttosto che per sottrazione («Così restiamo seduti, lo sguardo perso nella foschia, / mentre la marea lanosa si frange coi suoi belati / a destra e a sinistra della Saab e il tempo si adatta / all’andatura lenta del pastore che noncurante / sfila dietro la prua del suo naso / come un principe che nobilmente ignori un neo»).

E poi il destino breve dell’esistenza, come l’amore di Antinoo, il nido ordinato dell’aquila, lo spazio cavo di Elizabeth Bishop o il silenzio di Beato Angelico o l’orizzonte sottile di Dionisio L’Esiguo inventano angolature e genesi di mondo. Il poeta rammemora figure amate dell’antichità, intrecciandole alla sua storia personale, attraverso un moto che si apre «alle cose quotidiane, all’accumulazione delle piccole cose, alle intuizioni fulminanti, agli umori transitori che formano il tessuto di una vita[2]»: «Dove sono i nomi stradali, le statue, / la filatelia comme – / morativa, le tele – / conferenze con comparse togate, / i Dennis che hanno preso il tuo nome? / È solo grazie al Piccolo dei Traci / se noi di sicuro sappiamo / quando ci troviamo».

Patrick McGuinness, nella prefazione, scrive:

«Philip Morre è scrittore mutevole – forse è per questo che gli servono due nomi: come poeta è Philip Morre, come traduttore è John Francis Phillimore. Ce ne possono essere ancora altri… Anche le qualità della sua poesia che ammiriamo sono poliedriche: da un lato un’arguzia scarna, scevra da sentimentalismi, dall’altro una distinta nota di melancolia. Come il loro autore, queste poesie sono cosmopolite e allo stesso tempo tipicamente, profondamente inglesi. Molte sono anche agrodolci: ne ammiriamo la parola perfetta, l’espressione precisa, il verso incisivo, ma anche le sensazioni più vagamente evocate: sogni di un tempo perduto, di occasioni perdute, o di amore perduto, di cui queste poesie sono testimonianza. […] È un paese della mente il suo, di quel genere che solo gli espatriati ricordano perché resta fissato al momento in cui l’hanno lasciato: fermo all’allora, fermo al . Queste non sono però poesie nostalgiche – al contrario, hanno contezza e sono lucidamente consapevoli del passaggio del tempo, della maturità, della perdita di persone e di luoghi».[3]

L’equilibrio assoluto delle cose insegue il ritmo sferzante del reale, dove la stessa realtà pura si esprime in una modificazione metamorfica di forme, di stati, di situazioni. Anche l’amore per Morre esprime una fantasia di mito e di perdita. La scaltrezza della perdita e della sottrazione, del distacco e del rinvenimento, come luce furiosa: «Come due calici tintinnanti / di cubetti di ghiaccio, supponiamo / che le nostre anime si accostino / e rintocchino».

È come la linea incrociata di Mondrian, accampata nelle cose catturate e riemerse: «Come duellanti ci alziamo, le labbra si sfiorano, e ci voltiamo. / Io mi vedo da lontano, lodevolmente diritto, / poi il quadro scivola – una fantasia, come ho detto, / ma qualcosa di simile può esserci stato, / tante volte ripassata, difficile essere precisi / Mi addolora di non poterti vedere: hai mantenuto / sangue freddo? Ti sei voltata? Io no – Orfeo non sono, / e ora, benché guardi, nessuna immagine compare».

Morre procede per istantanee, unendo i contorni biografici e quelli universali, come se il tempo delle cose si unisse inscindibilmente al magma dell’essere, alla sua pensabilità, al sua enigma interrogante e al territorio memoriale (Vola Virgin).

Le parole diventano quasi non recuperate e irrecuperabili, morandianamente essenziali come presenze, duplicemente specchiate: «Due pesche, quattro banane, due pere, / schiaccianoci in allerta, cestino di acciaio / con bordo metallico arrotondato, posato / senza sfoggio su tovaglia verde e blu – olive o / sono prugne? Questo vedo, e mi chiedo / se questo, dovesse fallire la terapia, potrebbe / diventare il mio mondo, la sua pienezza e il limite».

Anche la scelta callimachea si situa in questa salmodia concreta di dettagli. Recuperare Callimaco, dunque, non solo riproporlo in riscrittura ma anche risvolgerlo in una marea infinita di provenienze.

In Group Therapy, il fonema della perdita è senza ormeggi, la solitudine è legame, lo stesso rimando di rime, significanti e suoni trasferiscono assenze e dolore in una peculiarità altra e ultima: «La mia mente senza ormeggi vaga ai suoi temi consueti: / al modo in cui, quando tu te ne sei andata, / ti sei solo trasferita al piano di sopra, ai miei sogni …».

Ne La tristezza degli animali, Morre «ci conduce dall’ironia fin dentro al dolore, in profondità – le lacrime che annebbiano le maschere dei sommozzatori, quel verso superbo «vitrea precipitazione di dolore» – per poi, alla fine, giocarsi tutta quell’emozione in quell’indifferente “Oh…” La poesia finisce là dove era cominciata, cinica, superficiale, faceta, indecisa tra depressione e pianto[4]»:

«Ma una volta al largo di Waisai e della sua barriera corallina / una cupa medusa, drappeggiata di viola e rosa / nella corrente come buttata s’uno schienale / si librò sopra di noi, quasi immobile. / Per quell’istante, per quanto la conoscessimo / insensato e gommoso processore di plancton / accolse tutta la tristezza dell’oceano, / in una vitrea precipitazione di dolore. / Giuro che le lacrime annebbiarono le nostre maschere. / stamattina il puledro ha saltato lo steccato / imbiancato. E il cane? Oh, il cane ancor gironzola / nella piazza – chi può dire se piange?».

 

[1] Morre P., Istantanea di ippopotamo con banane, traduzione e cura di Giorgia Sensi, prefazione di Patrick McGuinness, Interno Poesia Editore, Latiano (Br) 2019.

[2] McGuinness P., Philip Morre: senza ormeggi, in Morre P., Istantanea di ippopotamo con banane, cit., p.14.

[3] Id., cit., p.11.

[4] Id., cit., p.16.

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Morre P., Istantanea di ippopotamo con banane, traduzione e cura di Giorgia Sensi, prefazione di Patrick McGuinness, Interno Poesia Editore, Latiano (Br) 2019, pp. 116, Euro 14.

Morre P., Istantanea di ippopotamo con banane, traduzione e cura di Giorgia Sensi, prefazione di Patrick McGuinness, Interno Poesia Editore, Latiano (Br) 2019.