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La parola splendente di Saint-John Perse

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A scorrere la turbinosa vita di Saint-John Perse, pseudonimo di Marie-René Alexis de Saint Léger-Léger (1887-1975), premio Nobel per la letteratura nel 1960, presentato nella eccezionalità della biografia che apre il volume delle Oeuvres complete, è possibile rinvenire una stretta vicinanza tra letteratura, poesia e leggenda.

Nato nell’isolotto di Saint-Léger-les-Feuilles, al largo del porto di Pointe-à-Pitre nell’isola di Guadalupa, da padre avvocato e madre discendente di una ricca famiglia di piantatori di caffè stabilitasi nelle Antille Francesi, Alexis soggiornerà spesso tra le piantagioni di famiglia, in quel tremendo e dolcissimo spazio edenico, a contatto con le varietà di lingue e la purità della natura.

Successivamente, dopo le calamità naturali e la crisi economica dell’isola, si stabilisce in Francia, dove frequenta gli studi liceali a Pau e inizia a legarsi alla cerchia dell’esteta Gabriel Frizeau, facendo la conoscenza, per lui decisiva, del poeta Francis Jammes.

La morte del padre nel 1907, negli anni di formazione, lo costringe ad abbandonare gli studi (conseguirà la laurea solo nel 1910) e a farsi carico delle necessità economiche della famiglia.

La «crisi filosofica e letteraria» di questi anni, che si nutre delle letture di Spinoza e Nietzsche inizia a far trasparire un agone improvviso e potente: la lotta dell’energia e della voluttà contro il reame del vuoto e della malinconia. La nostalgica trasparenza mistica e simbolica lascia il posto all’azione, al rigore filosofico, alla meticolosità sacrale dell’io lirico e infine alla piena padronanza dell’esistere, come sostiene Camelin.

La necessità di scrivere, dispiegata già nelle prime opere (Images à Crusoé, Éloges), che affermano l’intensità dello infanzia antillese e lo squallore di Bordeaux in un unico dramma sospeso, non convoglia nella “forzatura” di una prigione ontologica, bensì tenta di rivelare l’io e le sue campiture trafitte, il cuore che pulsa, la conoscenza della realtà.

Dopo aver vinto il concorso per il Ministero degli Esteri nel 1914, e inviato come terzo segretario della Legazione francese a Pechino e da qui con le successive spedizioni in Manciuria, Corea, Mongolia, mentre è in visita al tempio di Tao-Yu, dirà alla madre che «la pace qui è grande per lo spirito, il margine incommensurabile, e le notti perfettamente riposanti lontano dal rumore della città cinese. […] Trasposizioni e trasgressioni qui sono tali ch’io sarei tentato di prendere la penna, contro ogni mio vecchio proposito» e inizierà l’estensione di un crinale poetico stuporoso, in forma astratta e simbolica: l’Anabase.

L’attività diplomatica si accompagna al vertice della purità poetica: in tal senso, l’aver adottato lo pseudonimo Saint-John Perse, designerà l’autore dell’opera a partire da Anabase, come il nome di una delle Isole Vergini (mentre Perse potrebbe avvicinare Persio-Perseo).

Alexis Léger rappresenta il patronimico del poeta, Saint-Leger Leger, lo pseudonimo delle sue prime opere, Alexis Leger, il suo spazio di intimità privata: «La personalità stessa del poeta non appartiene in nulla al lettore, che non ha diritto che all’opera compiuta, staccata come un frutto dal suo albero …. Dietro queste libere stilizzazioni di pura creazione poetica, non v’è più posto per la personalità mitica di un Saint-John Perse che per la personalità reale d’un Alexis Leger […] Da qui questa proiezione al suolo che falsa tutta l’interpretazione poetica di un’opera di pura immaginazione» (lettera ad Adrienne Monnier). 

L’immaginazione che spodesta e spersonalizza, spoglia il sogno, secreto e secretato dall’inconscio, si stagna nel profondo per sprigionare i suoi varchi senza limite, scomoda l’archetipo per nutrirsi dello splendore.

Saint-John Perse, abitando la spersonalizzazione e approntando la sua superba solitudine poetica, ha allontanato ogni tratteggiamento di storicità, di biografismo, perseguendo la atemporalità del mito e l’autonomia creativa, affermatesi in una condotta lucida di angoli e richiami, finendo per «essere (in letteratura) come quelle barche all’ormeggio che offrono solamente la loro poppa alla curiosità dei passanti: un nome, un porto d’attracco; ecco tutto il loro stato civile. Il resto è avventura, e appartiene solo ad esse».

L’esplorazione dell’abisso si appropria del pensiero primario, condensa gli archetipi in una tensione conoscitiva e originaria che salva le percezioni, gli affetti, la genesi delle sensazioni, il surrealismo a distanza: «Mi chiamavano l’Oscuro e abitavo lo splendore».

Il movimento, la cifra immanente, il solco della legittimazione dei poli opposti dell’essere,  tendono a stringersi, fino all’estremo della cittadinanza aerea e terrestre, come lo Straniero che si insedia nel suo continente insulare ed eterogeneo (il poeta si riconosce «insulare, creolo e uomo dell’Atlantico)». Così gli elementi simbolici attestano la loro forza di abbandono: «Su tre grandi stagioni stabilendomi con onore, buon presagio ho del suolo ove ho fondato la mia legge. Le arme di mattina sono belle e il mare. Ai cavalli lasciata la terra senza mandorle ci vale questo cielo incorruttibile. E il sole non è nominato, ma la potenza sua è tra di noi e il mare di mattina come una presunzione della mente». Nell’ aprile del 1924, sulla Nouvelle Revue Française, appare Anabase, il tempio onirico di Saint-John Perse. Verrà tradotta in diciotto lingue, tra cui quelle importanti di Hugo von Hoffmansthal e T.S.Eliot, mentre in Italia, su suggerimento di Jean Paulhan, Ungaretti la tradurrà, dopo cinque anni di lavoro, nel 1930 e sarà pubblicata l’anno successivo sulla rivista “Fronte”. In una lettera alla principessa Marguerite Caetani di Bassiano, egli scrive: «Lavoro con passione ad Anabasi. È stata per me una vera fortuna incontrare questo libro. Lo vedrete nelle note che precederanno la mia traduzione. Un mondo m’è stato spalancato quando non arrivavo a trovare in me il minimo segno di chiarezza. Io vi incontro ad ogni passo stupori nuovi. È una consolazione potere consacrarsi ad un tal lavoro […] è uno dei rari esempi uno dei rari esempi recenti di poesia epica. È il tentativo audace e riuscito, di fondere nella rappresentazione degli eventi d’una gente, il moto lirico, cioè la storia d’un io, dello Straniero legato ai suoi modi per le strade di tutta la terra. È l’anima del poeta che ha scelto per la sua fantasia quei luoghi che «dalle valli e dagli altipiani, e dalle più alte pendici di questo mondo» arrivando sino «alla scadenza delle nostre rive» contengono una delle condizioni della vita leggendaria:spazio. Un’altra condizione epica ha il deserto: la sua gente è «di poco peso nella memoria dei luoghi» ossia la vastità dello spazio la mantiene quasi primitiva nei costumi e quasi innocente nelle intenzioni. La natura dominando la civiltà, l’uomo essendo in balìa più dell’elemento che della sua opera, in quei luoghi valgono storie e non persone: l’uomo essendo cioè alle prese con la natura in modo elementare e legato a sé e agli altri da vincoli quasi unicamente istintivi e religiosi, valgono in quei luoghi, l’oscurità dei fenomeni naturali, il furore del sole, il clima a diversi piani, il vento inospitale, lo spettacolo del disseccamento progressivo della terra, l’affannarsi d’un convoglio dietro un filo d’acqua…Laggiù vale la sete, vale la sollecitazione dei sogni. “Lo Straniero ha messo il dito nella bocca dei morti”».

La segretezza poetica si colma della dilatazione della lontananza e dell’indefinito, come il fuoco dei nomi e dei luoghi, il punto vivo dell’uomo, indigeno e straniero, che si insedia nella sua vita leggendaria, nel passo della sorte, nel rifluire della memoria, come osserva Alain Bosquet: «Così il conquistatore, e con esso la terra che lo porta, e con questa il poema che li celebra entrambi, e con quest’ultimo il linguaggio stesso con i suoi vocaboli migratori, viaggiano in perpetuo stato di anabasi e d’esilio».Il mistero che, secondo Ungaretti, riporta l’alessandrino «alla sua originale potenza ritmica», condensa l’atmosfera splendente e onirica dei vocaboli, il loro intreccio, la loro enumerazione.È attraverso Perse che Ungaretti, toccando la sua sontuosa eloquenza, approda a Mallarmè. La poesia apre il suo sbarramento, l’accensione a una vitalità che richiama il mito e l’ordine superiore del suo disegno natale. L’orecchio interno nutre gli spazi originari, che abitano il poema, la loro salita e la loro spedizione. L’epopea senza eroi, come la definisce Jean Paulhan, non ha rilievo, perché il poeta è l’eroe, racchiuso nella sua disperata e disparata enumerazione. Il paesaggio cinese, dove nasce l’opera, collima, nella sua piana sconfinata, con l’infinito e tenta di sopprimere il tempo: «Scegli un grande cappello di cui sedurre il bordo. L’occhio arretra d’un secolo nei distretti dell’anima. Dalla porta di gesso vivo si vedono le cose della piana: cose viventi, o cose eccellenti». Si ricompone così il tempo interiore, quando lo sguardo, insidiato dalle terre lontane, richiede l’eternità.L’esilio diviene la condizione precipua della creazione esploratrice, come affermato corso del mondo, atto a celebrare  la «solitudine dell’azione», il suo personale collage di frammenti disteso in strati di enigma e il suo travestimento.