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La terra di Ignazio Silone

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Ignazio Silone, al secolo Secondino Tranquilli, (1900-1978), è sempre stato una sorta di outsider nella letteratura del ‘900, nonostante sia stato molto celebrato all’estero e sconosciuto in Italia, in un momento importante e nevralgico della storia e della cultura postfascista.

Il suo anticonformismo ideologico che dapprima gli aveva fatto abbracciare la Gioventù socialista e poi il partito Comunista, fino al PSIUP e poi alla rinuncia di ogni distintivo di partito, ha causato nella critica un enorme abbassamento di interesse nei confronti della sua opera, che rappresenta una sorta di continua ribellione alla burocratizzazione dello strumento politico e, parimenti, alla teorizzazione di un socialismo assoluto, collimante con un cristianesimo sciolto da ogni vincolo, intimo e, per certi versi, sovversivo, come egli stesso scrive: << Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto d’ Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell’esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia >>.

L’adesione al marxismo e poi all’anti-fascismo divengono opposizione attiva a uno stato totalitario, la cui violenza si evidenzia soprattutto ai danni dei diseredati della provincia e della campagna, rafforzando così <<la sfiducia la diffidenza la rassegnazione>> e impossessandosi di una voce che si oppone fermamente all’autoritarismo associativo di ogni ideologia costrittoria.

Silone ha conosciuto l’esilio, prima in Francia e poi in Svizzera, ma soprattutto ha vissuto su di sé il bisogno di riflettere e raccontare, come <<bisogno di capire, di rendermi conto, di confrontare il senso dell’azione, in cui mi trovavo impegnato (…) E se la mia opera letteraria ha un senso (…) scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un’ossessione, di affermare il senso e i limiti di una definitiva rottura, e di una sincera fedeltà.>>.

Da qui nasce il suo romanzo forse più decisivo e importante Fontamara, l’epopea dei “cafoni” fontamaresi, che avevano conosciuto l’abbandono, la miseria, la violenza nobiliare e governativa, e in sostanza la situazione storico-economica tipica della condizione meridionale italiana. Ma Silone compie un’opera universale, caricandoli di importanza e luce e affermando l’oppresso, come figura specifica e collocata.

Non è un documento o una narrazione realistica o tantomeno epica sommossa che mette a fuoco una classe diseredata in attesa di riscatto, quanto piuttosto una parabola soggiogante, come un fiore violento e duro, del potere sull’ignoranza e la miseria.

Il registro esistenziale dei suoi romanzi (da L’uomo è forte a Il segreto di Luca, fino a Vino e pane) fornisce lucidità d’insieme ai fatti reali e verosimili, vissuti nei luoghi della Marsica, luogo d’anima e centro di un universo morale, nonostante viaggi ed esilio. Ma anche luogo di un contrasto politico, di messa in luce di un fatalismo sociale, ricolmo di ansietà e speranza.

Scrive Eugenio Ragni: La coralità di Fontamara – cafoni e piccoli possidenti, autorità e galantuomini, tutti diversamente coinvolti nel gioco del potere e della prevaricazione, e quasi tutti caratterizzati da soprannomi che, oltre a rispettare una consuetudine dell’ambiente popolare, assumono il tratto di un elenco di maschere atellane – istruisce una rappresentazione dell’ingiustizia che da sempre e ovunque si perpetua sulle comunità contadine schiacciate dalla violenza e dalla miseria (…).

Il tessuto letterario, pertanto, annota registri popolari, non solo per accorato realismo, quanto per un’accesa vivacità espressiva, che se da un lato connota in modo fluido il racconto, dall’altro pone l’esclusione dall’italiano, come traccia dicotomica e simbolica.

Una condizione storica di compromesso, quella della lingua, violentata dalle malversazioni del potere. Il piccolo mondo oppresso descritto in questo romanzo è l’anima dell’autore, la sua vita quotidiana, il suo linguaggio, talvolta ironico, figlio della persecuzione politica e della militanza clandestina, come testimonia ad esempio il romanzo Il seme sotto la neve.

In questa dimensione la necessità di un racconto evangelico, narrato nelle pagine  de L’avventura di un povero cristiano, si situa nella protesta nei confronti della ‘chiesa’ comunista e di quella cattolica, lontane dalla povertà e dalla carità. Da un lato la semplicità di Celestino V, dall’altra l’autoritarismo di Bonifacio VIII, divengono situazioni di una rivalità profetica, di un’istanza etico-religiosa essenziale.

L’eterna agonia di Cristo crocefisso in terra, presente nei volti degli oppressi e dei poveri ha un approdo di lotta, di vocazione, a tratti confinata nell’utopia, ispirata a <<un senso serio e profondo della vita>>,  espressione infinita di una ferita ampia e <<forse inguaribile>>.