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Le anime di Costantino Kavafis

 

Verso la fine degli anni quaranta, un giovane e spregiudicato Pier Paolo Pasolini, nei quaderni preparatori al romanzo Amado, offriva un omaggio entusiasta a Costantino Kavafis, <<il poeta alla cui ombra abbiamo dedicato il presente racconto>>. Difatti il ragazzo di cui s’innamora Desiderio si chiama Iasìs, come l’efebo della poesia Tomba di Iasìs, scritta da Kavafis nel 1917 e trascritta interamente da Pasolini. Negli anni a venire, l’ammirazione dello scrittore italiano per il poeta greco resterà inalterata e l’ormai maturo Pasolini arriverà persino ad incoronarlo miglior poeta del primo Novecento, assieme a Machado ed Apollinaire. In realtà Pasolini non fu il solo ad esaltare la genialità di Kavafis: sin dal principio del XX secolo, poeti, scrittori e critici hanno in più modi apprezzato la sua poesia e la libertà incondizionata nel cantare i suoi amori omosessuali, coraggio poco comune capace di sfidare l’opinione pubblica e gli ambienti accademici, come una moderna Saffo.

Ma, in verità, tutta o quasi l’opera di Costantino Kavafis è dedicata ai luoghi della sua esistenza: Alessandria d’ Egitto e la Grecia, il cui mito sopravvive sino ai giorni nostri. In una scarna nota autobiografica, il poeta afferma d’esser nato ad Alessandria ma di esser originario di Costantinopoli, custode dell’ellenismo e simbolo di una cultura raffinata ed elitaria. E, in effetti, la geografia esistenziale del poeta si dibatte tra due anime: Alessandria, la città dai vicoli loschi, dai caffè, dalle stanze malfamate delle venditrici d’amore e del mare, ove bagnarsi nudi nel sole del mattino; e la Grecia, con la sua millenaria storia e l’ampiezza degli orizzonti culturali. Ma vediamoli attraverso i suoi versi, questi due mondi incantati ed ammaliatori, apparentemente contrastanti.

L’Alessandria di Kavafis è la città crocevia di popoli e culture differenti, dallo stile parigino e orientale insieme, meta di pensatori ammalati di décadence e di avanguardisti. Ma è anche la città della privazione e della limitazione. Nel 1907, Kavafis confessava a proposito di essa: “Quanto mi infastidisce questo luogo!Che uggia, che fardello sono le città piccole!Che privazione di libertà!”. Le poesie di Costantino, ebbero, in effetti una freddissima accoglienza. La novità dello stile e dei contenuti non piacque molto all’Alessandria ufficiale ed accademica, alla roccaforte di poeti e scrittori ufficiali. Ma non fu solo questo che dovette infastidire il baldanzoso poeta. Nella poesia Mura scrive: “Senza riguardo, senza pudore né pietà, m’han fabbricato intorno erte, solide mura. E ora mi dispero, inerte, qua”. Le mura, secondo testimonianze del poeta stesso, sono quelle metaforiche che lo avrebbero isolato a causa della sua omosessualità. In effetti egli fu apertamente omosessuale ed è probabile che ciò pesò molto nella valutazione della sua poesia nell’Egitto di fine secolo. Ma egli fu sempre onesto nel dichiarare il suo orientamento e i giovani delle sue poesie ci ricordano spesso le fanciulle del tiaso della già citata Saffo, e gli accenti di sensualità col quale vengono cantati: “Eurione, il giovine bello, riposa. […]. Ma la cosa più rara è sparita: la sua bellezza, un’apollinea epifania” recita la poesia Tomba d’Eurione.

Ma, per quel processo psicologico che spesso si verifica, per cui dietro il rifiuto e l’astio, si nasconde il più intimo e contraddittorio degli amori, Alessandria non abbandonò mai il cuore del poeta: “Hai detto: Andrò per altra terra ed altro mare […] Né terre nuove troverai, né nuovi mari. Ti verrà dietro la città. Per le vie girerai: le stesse. Negli stessi quartieri invecchierai, ti farai bianco nelle stesse mura”. Sono versi, incipit e strofa finale, de La città, poesia assai emblematica del senso d’appartenenza che lega non solo il poeta, ma l’uomo, al luogo nativo e, per quanto possa esser disprezzato e criticato, esso ci segue sempre, coi suoi umori e colori. Ma passiamo ora alla Grecia, la culla della civiltà moderna, che Kavafis ha saputo come pochi descrivere nel fulgore della bellezza antica. La poesia Termopile recita: “Onore a quanti nella loro vita decisero difese Termopile. Mai dal loro dovere essi recedono; in ogni azione equilibrati e giusti, con dolore, peraltro, e compassione; […] solerti a soccorrere gli altri più che possono”. L’ episodio revocato è quello celebre della battaglia delle Termopili del 480 a.c vinta dai persiani di Serse; lo spirito bellico, l’amor patrio e il sacrificio per la difesa degli ideali dei Greci, esplodono qui con veemenza ed ardore. Ma è quando Kavafis sceglie di gareggiare col padre della poesia, Omero, che perviene ai risultati migliori e particolarmente suggestivi: numerose sono le scene riprese dall’Iliade e dall’Odissea, culminanti nella struggente e meravigliosa Itaca, che funge da chiosa ideale del percorso poetico-conoscitivo di Kavafis. La poesia Troiani così recita: “Sono gli sforzi di noi sventurati, sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani. […] E stiamo fuori, in campo, per lottare. […] Dei nostri giorni piangono memorie, sentimenti. Pianto amaro di Priamo e d’Ecuba su noi”. Il testo si riferisce a vari episodi della lotta attorno a Troia narrata proprio nell’Iliade e in particolare alla fuga di Ettore, simbolo dell’impossibilità dell’uomo di opporsi alle sue debolezze e ai nemici interni, emblema dunque dell’uomo non solo antico ma anche e soprattutto moderno, colto nella sua universalità.  E come non citare alcuni versi de I cavalli d’Achille, ove per la morte di Patroclo, amato cugino del mirmidone, “dentro il gran Nulla tornato”, anche le bestie immortali, dono di Zeus, piangono l’amaro destino del giovane sventurato: “Ma le bestie di nobile natura piangevan di morte la perenne sventura”. Ma è con la poc’anzi citata Itaca che Kavafis giunge agli esiti più alti: il viaggio di Ulisse per tornare ad Itaca, diviene metafora della vita, poiché non conta la meta da raggiungere, bensì il cammino per arrivare ad essa e tutto ciò che lungo la strada abbiamo visto, imparato, acquisito e che ci ha reso ricchi dentro, ricchi di quella antica humanitas che rende degna d’esser vissuta la vita umana. “Se per Itaca volgi il tuo viaggio- comincia la poesia- fa voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. […] E siano tanti i mattini d’estate che ti vedano entrare(e con che gioia allegra) in porti sconosciuti prima. […] Ma non precipitare il tuo viaggio. Meglio che duri molti anni, che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta, ricco di quanto guadagnasti in via, senza aspettare che ti dia ricchezze. […] E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso. Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca”.