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Le canzoni liriche

[1]Tra gli importanti settori della Napolisofia di cui ancora non si è parlato qui, spicca per la sua vastità quello che, in mancanza di una terminologia adeguata, propongo di chiamare “Canzone Lirica”. Secondo me è indispensabile – se si vuole condurre un discorso attendibile sulla canzone napoletana, suddividerla in generi, proprio come si fa comunemente – e con definizione sempre più accurata -  per le composizioni letterarie da una parte e per quelle musicali dall’altra; operazione tanto più necessaria e da compiere ex novo per una tipologia artistica, la canzone senza e con aggettivi, che riunisce in sé entrambe queste arti sublimi.

Perché però parlare di “Canzone Lirica” come di una categoria a sé stante? In Wikipedia leggiamo:“La poesia lirica è la definizione generale di un genere letterario della poesia che esprime in modo soggettivo il sentimento del poeta ed attraversa epoche e luoghi vastissimi. La parola deriva dal greco λυρική (lyrikē, sottinteso poiesis, = poesia che si accompagna con la lira)”.

Quindi fin dal principio parole e musica furono pensate (create) insieme, in una sinergia espressiva che ancora non è stata superata. Quanta importanza i Greci antichi attribuissero alla poesia è facilmente intuibile anche sulla base di quella attribuita alle nove Muse[1], protagoniste in numerosi miti classici e sempre molto popolari nel corso del tempo, fino ai giorni nostri. Sembra tuttavia probabile che tale favore pubblico sia stato massimo nell’Evo Antico, soprattutto in Grecia dove le Muse erano nate; il fatto stesso che fossero così numerose ci rivela che chi le inventò era ben consapevole delle differenze all’interno della loro specialità, la poesia musicata. Leggiamo ancora in Wikipedia:

“Nella Grecia dell’ Età Arcaica la poesia lirica era quella che si differenziava dalla poesia recitativa per il ricorso al canto o all’accompagnamento di strumenti a corde come la lira (…) Nella lirica monodica (composizione per una voce solista avente una sola linea melodica) vengono così annoverati tra gli eccelsi Alceo, Saffo, Anacreonte  (…) Nell’usare oggi l’espressione “lirici greci” si fa però riferimento, in senso più lato, a tutto un modo di produrre versi che copre in Grecia l’arco di due secoli, il VII e il VI a. C. (…) La poesia greca di questi due secoli è accomunata da due caratteristiche. La prima consiste nel fatto che l’autore, pur rispettando i limiti del genere, si muove al suo interno con estrema libertà e la seconda è che essa si distingue per la sua oralità. Essa viene “detta” ed è destinata alle orecchie, come dice Platone. Lo stile si distingue per la brevità dei periodi ben allineati e senza difficoltà sintattiche.”

Riassumendo: ricorso costante al canto, una voce solista e una sola linea melodica, periodi brevi, sintassi semplice. Questo per quanto riguarda la forma. Più libera è invece la scelta relativa ai contenuti:

“I motivi che ispirano la lirica greca sono molteplici. Vi sono componimenti dedicati agli dei ai vincitori di gare sportive (…) alle consolazioni e ai compianti, alle nozze, ai banchetti, alle danze e alle processioni. Non vi sono delimitazioni, per cui ogni poeta può spaziare in più campi e utilizzare i moduli di un componimento anche in un altro.”

Non sono poi così diverse, oggi, le canzoni in generale e quelle vernacolari in particolare, anche perché “nella lirica monodica il linguaggio è il dialetto dello scrittore”. Inoltre

“dopo il V secolo a. C. la lirica subisce una grande trasformazione ad opera degli Alessandrini che compongono carmi raffinati destinati a persone colte[2]”.

Con il poeti romani la poesia lirica prende una direttrice che ci è più familiare, se non altro per il progressivo prevalere delle tematiche sentimentali: nell’elegia, per esempio (ma non soltanto) prevalgono gli amori impossibili: ne vedremo tra poco qualche esempio scelto tra le canzoni napoletane più famose, dopo aver verificato che la timeline in questo campo non si è mai interrotta, neppure durante il Medioevo che anzi l’ha rafforzata notevolmente:

“La lirica occidentale moderna nasce in Provenza dove, dalla seconda metà del XII fino al primo quarto del XIII, fiorisce la poesia dei trovatori,che cantavano la joi dell’amore, in particolare il fine amor (l’amore perfetto). I Provenzali accompagnano le loro poesie con il liuto ed elaborano particolari metri (…) Il motivo principale è il vagheggiamento della donna innalzata e sublimata in pura “femminilità” che influenzerà tutta la successiva lirica”, dal Minnensang tedesco alla Scuola siciliana, fino agli Stilnovisti e a Petrarca”.

Quello che è accaduto dopo alla Canzone Lirica è più facile da seguire: essa si è, per così dire, specializzata “nell’esprimere emozioni e sentimenti soggettivi” conquistando una spazio definitivamente riservato dapprima nel Romanticismo, quindi nel Decadentismo e così via.

Sarebbe troppo facile – e al tempo stesso terribilmente arduo, a causa della possibilità di esempi innumerevoli – cercare le riprove di quanto visto fin qui nella Canzone Lirica napoletana del periodo aureo. Ho preferito optare per brani più recenti, che riferiscono tutti, nelle rispettive diversità, profonde tracce delle inquietudini dei tempi nostri. A cominciare da ANEMA E CORE (D’Esposito – Manlio), proposta nell’interpretazione di Sal Da Vinci

http://www.youtube.com/v/rgAS1bb96Cc.swf [2]

Una canzone d’amore facile, a prima vista:

ANEMA E CORE
Nuje ca perdimmo ‘a pace e ‘o suonno,
nun ce dicimmo maje pecché.
Vocche ca vase nun ne vonno,
nun so’ sti vvocche, oje Ne’!
Pure, te chiammo e nun rispunne
pe’ fa’ dispietto a me.

Tenímmoce accussí: ánema e core,
nun ce lassammo cchiù, manco pe’ n’ora.
Stu desiderio ‘e te mme fa paura:
campa’cu te,
sempe cu te,
pe’ nun muri’!
Che ce dicimmo a fa’ parole amare
si ‘o bbene po’ campa’ cu nu respiro?
Si smanie pure tu pe’ chist’ ammore,
tenimmoce accussí, anema e core!
Perdere per amore ‘a pace e ‘o suonno non è raro. Ci siamo passati tutti[3], così come attraverso certi disturbi della comunicazione tra innamorati, anche se profondamente coinvolti nello tsunami della passione. Ritorsioni, ripicche e dispetti all’interno della coppia sono, si può dire, all’ordine del giorno, specialmente nelle prime fasi dell’innamoramento. Per fortuna una carnalità intensa (“stu desiderio ‘e te mme fa paura”) di solito interviene ad alleggerire il sentimento di dipendenza nei confronti dell’altro (“campá cu te, sempe cu te, pe’ nun muri’!). Fin qui, tutto regolare, o quasi: la mia nonna settentrionale[4] soleva dire “Amor xé amor e no xé brodo de fasòi”. Le difficoltà vere, quelle esistenziali, trapelano però nella seconda e ultima strofa, la meno conosciuta ma anche, dal nostro punto di osservazione, la più interessante:
Forse sarrà ca ‘o chianto è doce,
forse sarrà ca bene fa.
Quanno mme sento cchiù felice,
nun è felicità,
specie si ê vvote tu mme dice,
distratta, ‘a verità…

E’ questa, a mio avviso, la soggettività di cui si parlava sopra a proposito delle Canzoni Liriche in senso lato. La dolcezza del pianto, il suo effetto terapeutico, non dipendono tanto dai concreti comportamenti dell’amante, quanto piuttosto da un bisogno intimo, esistenziale. L’incapacità intrinseca di accedere alla felicità è qualcosa che si “sconta vivendo”, come diceva il Poeta[5], ed appartiene elettivamente alla psiche del Novecento, così come l’ambiguità squisita nei due versi estremi, contenenti uno dei grandi interrogativi del nostro relativismo: cos’è la verità? Esiste? Può essere conosciuta in modo autoreferente e, in caso di risposta affermativa, può essere del tutto rivelata? ANIMA E CORE dice di sì, ma solo a patto che si sia “distratti”, cosa che succede in casi abbastanza rari, in stati di coscienza alterati, verrebbe da dire, come quello descritto dal secondo dei pezzi che propongo per oggi, AMARO È ‘O BENE (S. Palomba – S.Bruni), qui cantata appunto da uno degli autori:

http://www.youtube.com/v/eHBz6m5KqiY.swf [3]

AMARO E’ ‘O BENE
Nu suono ‘e fisarmonica se sente
ma nun ‘o saccio si m’ ‘o sto sunnanno.
O forse sta sunanno overamente?
Nu suono ‘e fisarmonica se sente …

Bene. In questo caso la soggettività consiste in una sorta di “illusione ipnagogica[6]” indotta dalla fisarmonica che suona o sembra suonare mentre chi racconta si trova nel dormiveglia. A tale condizione fisica si appaia però una situazione emotiva speculare, per cui all’incertezza dei sensi corrisponde quella del cuore, in un susseguirsi di ossimori dilaceranti che dominano il ritornello:
Amaro è ‘o bene,
amare songo ‘e vase ca mme daie.
Nun tene cielo,
st’ammore nuosto nun tene dimane.
Amaro è ‘o core
pecché  nun sape chelle c’ha da fa’,
si ha da tremma’ pe tte
o s’ha dda ferma’.
Amaro è ‘o bene.

Tripudio di contrasti: il bene invece di elargire dolcezza infonde amarezza; l’amore, che per definizione è scommessa sul futuro, non dà speranza; il cuore, invece di battere per la persona cara, è tentato dall’idea di fermarsi per sempre. Dualità, conflitto, sofferenza, il tutto condito dalla percezione di una distonia che riempie di vibrazioni negative perfino l’aria:

Ce sta int’all’aria nu presentimento.
Chissà si chesta è già l’ultima vota?
Sento ca me l’arrobbo ogni mumento…
Ce sta int’all’aria nu presentimento.

Baci amari, momenti rubati: può l’amore essere ansiogeno fino a questo punto? Nel mondo magico della Napolisofia certamente sì, ma per fortuna in questo stesso mondo esiste anche l’alternativa, come nell’ultimo dei brani proposti quest’oggi, forse il più napolisofico dei tre, CARMELA (Palomba – Bruni), qui eseguito da Sergio Bruni insieme a Tullio De Piscopo:

http://www.youtube.com/v/CGK6t6kgOxo.swf [4]

CARMELA

‘Stu vico niro
nun fernesce maje
e pure ‘o sole
passa e se ne fuje,
ma tu staie lla’,
tu rosa preta ‘e stella,
Carmela, Carme’.

La scena – soprattutto interiore – si apre su una Napoli che, presa coscienza della propria (dell’umana, della cosmica) disperazione, non riesce non può non vuole sopportarla più. Ma dalla desolazione integrale, da cui ogni luce sembra rifuggire con orrore e terrore, qualcosa/qualcuno si salva ad onta di tutto: un frammento di cielo, un grumo di polvere di stelle, una donna, LA donna.
Tu chiagne sulo si
nisciuno vede
e strille sulo si
nisciuno sente,
ma nun e’ acqua
o’sanghe dint ‘e vene,
Carmela, Carme’.

Carmela è tanto intensamente donna[7] da celare agli altri la propria fragilità e il proprio dolore, perché è della natura della donna saper offrire conforto agli altri anche quando il suo cuore sanguina a morte. E’ della donna saper combattere la sempre nuova battaglia della vita che ancora e ancora riesce a sconfiggere la morte. E l’uomo lo sa:
Si’ l’ammore e’ ‘o cuntrario da’ morte
- e tu ‘o ssaje -
si’ dimane è sultanto speranza
- e tu ‘o ssaje -
nun me puo’ fa aspetta’ fino a dimane:
astrigneme int’e’ bbraccie pe’ stasera,
Carmela, Carme’.
  

Troppo semplice a questo punto parlare di Principi Ermetici, di Fisica Nucleare, di Yin e Yang. La poesia, con la meravigliosa capacità di sintesi espressiva che le appartiene da sempre – e che subentra ad un’una altrettanto miracolosa analisi percettiva ed animica – riesce ad esprimere i più ardui concetti con pochi versi, in cui non c’è niente di meno e niente di più, anche grazie alla istintuale sapienza della musica che sa quando gridare e quando sussurrare, quando piangere e quando sorridere, quando nascondere e quando rivelare. Ecco perché una grande Canzone Lirica può spiegare l’universo più di cento polverosi tomi di filosofia.


[1] Figlie di Zeus e di Mnemosine, dea della memoria. Dal Sito SETTEMUSE: Calliope, il cui nome in greco significa “dalla bella voce”, era l’ispiratrice della Poesia Epica – Erato, che deriva il nome da Eros ed è considerata l’ispiratrice della Poesia Lirica e del canto corale – Clio, “Colei che può rendere celebri” è la Musa della Storia – Euterpe nella mitologia Greca e Romana era la musa della Musica, protettrice di strumenti a fiato e, più tardi, anche della Poesia Lirica – Melpomene, “colei che canta la Tragedia”, era la musa del Canto, dell’armonia musicale e della tragedia – Polimnia è la protettrice dell’orchestica, della pantomima e della danza associate al canto sacro e eroico – Talia, da thallein (fiorire),  è colei che presiede alla Commedia ed alla poesia bucolica – Tersicore è la Musa della Danza – Urania, da   Ouranos, cielo stellato,  era la Musa dell’astronomia e della geometria.

[2] Anche nella canzone napoletana è accaduto questo, come constateremo in un’apposita sezione.

[3] A ragione nel V dell’Inferno Dante parla di dubbiosi desiri.

[4] L’altra mia nonna, Zi’ Chiara, era meridionale e non diceva molto, troppo occupata ad allevare, da vedova, dodici figli.

[5] Giuseppe Ungaretti, Sono una Creatura”.

[6] Da Wikipedia: Le illusioni o allucinazioni ipnagogiche sono esperienze intense e vivide che si verificano all’inizio di un periodo di sonno e avvengono spesso in aggiunta delle paralisi ipnagogiche. Questa fase dura da qualche secondo a diversi minuti in cui alcuni o tutti i sensi, ma in particolar modo vista, udito e tatto,  possono risultare coinvolti e frequentemente è molto difficoltoso per il soggetto distinguere l’allucinazione dalla realtà.  

[7] Donna mediterranea, ho voglia di dire.