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Le colombe di Damasco e la trasparenza della scrittura

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Le colombe di Damasco, a cura di Kate Clanchy, edito da Lietocolle, i cui proventi andranno alla UNCHR, Agenzia Onu per i rifugiati, sezione italiana, raccoglie una antologia di poesie, come scrive la traduttrice Giorgia Sensi,

«scritte da studenti con un’età compresa tra gli undici e i diciannove anni, e tutti nella stessa piccola scuola, Oxford Spires Academy. La curatrice, la poeta Kate Clanchy, ha lavorato lì come Writer in Residence per circa otto anni. Tutti i ragazzi inclusi nell’antologia vengono da famiglie di migranti e parecchi sono rifugiati. Oxford Spires Academy, inoltre, nonostante il nome ambizioso, non è una scuola selettiva, per privilegiati; è una normale scuola secondaria superiore “comprehensive” sita nella zona est di Oxford: un agglomerato industriale, povero, di urbanizzazione selvaggia, ben lontano dalle famose guglie. Questa scuola ha, però, una speciale caratteristica: il suo miscuglio etnico. Una scuola che molti migranti scelgono, sia le famiglie che arrivano dalle vicine Heathrow e Campsfield e chiedono asilo politico, sia i migranti economici che lavorano nei grandi ospedali o nelle fabbriche d’auto della città».

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L’ineffabile accozzaglia, come la chiama con affetto Kate Clanchy, è l’esito di un miracolo. Non solo quello della scrittura ma anche, e soprattutto, del fatto che in poesia non esiste la parola periferia. Giacchè il punto più estremo del mondo è, di fatto, il luogo centrale in cui la storia si svolge e si afferma.

La poesia, in questa antologia, diventa lo speciale esito di una trasparenza. Unisce, vibra, in ogni possibile dimensione verbale. Una scuola che tocca la scrittura ma che crea legami viventi, diventa investimento umano e voce interiore.

Scrive Kate:

«Non tutte le scuole, tuttavia, potrebbero produrre un libro come questo, perché qui c’è in gioco un altro fattore: quello della perdita e del cambio di lingua. Tutti i poeti presentati qui sono giunti tardi all’inglese, o almeno all’inglese scritto, dopo i sei anni di età: ogni studente qui, sia a causa della migrazione, o della sordità, o della dislessia, ha attraversato un periodo di perdita della propria lingua materna, come dice Rukiya Khatun con parole così commoventi “il silenzio stesso era mio amico”».

L’originalità e la freschezza, dunque, sono la cifra, o per meglio dire, il segno di una umanità in lotta: da una parte con la perdita e dall’altra con il rinnovo di un abbandono, e di una forza, magistralmente linguistica.

Come giustamente citata da Kate Clanchy nella introduzione, scopriamo e rinveniamo un atto rammemorativo e di ricordo. Qui si trova una forza stupita, come nel testo della diciassettenne Rukiya che vede per la prima volta l’Inghilterra: «Le gemme crescevano / di stagione in stagione? / Gli alberi di limoni / si accendevano / nella luce, / e le banane nane, maturavano? / Allora, mi apprestavo a essere una donna, / impavida tra i nativi, / Laggiù, in quel mondo. / Non il mio».

O il memoriale di Azfa Awald, di diciotto anni, che inventa una danza di rose oltre il martirio e la guerra: «E mentre scappavo / dal morso dei fucili, / i miei piedi sapevano danzare, / correre sopra i petali di rosa / che grondavano dalle mie punte».

La immensa domanda di Amineh Abou Kerech (13 anni) su come si faccia una patria interroga anche noi: un saluto, un ringraziamento, un ponte di grazia. O il bicchiere di tè di Shukria Rezaei (18), che, seguendo la potenza fragile di Rumi, ricrea un mondo visitato dalla danza leggiadra di un sole folgorante, di un fiuto di nuvole, di un uccello che vola sopra la brezza. Chiede di sentire il cuore, sebbene ferito e dolorante chieda di trovare il suo posto, la sua traccia indelebile.

Poi le bellissime colombe di Damasco di Ftoun Abou Kerech (14). Il profumo del gelsomino, il ricordo del paese nell’aria umida d’estate, l’autunno con le sue foglie arancio e scarlatte. Quanta potenza!.

O il ricordo non ricordato di Ismail Aktar (12), in cui quell’oblio che sembra distruggere tutto non toglie la bellezza dei datteri secchi, le pesche, il giaca, l’ananas, l’erba falciata e immagazzinata per il bestiame. Ecco impressiona come i ragazzi riescano a far vibrare l’emersione di una vita nuova, come racconta Maah-Noor Ali (15), o sentano la profonda nostalgia di casa, in quella novalisiana aria che diventa feritoia umida e vertigine di provenienza.

La lingua, il ritmo, il battito, le lacerazioni degli strappi, la chiamata del nome come i gelsomini intorno alla porta di Jasmine Burgess (14), la vasta maternità dell’Eyen di Michael Egbe (17), i fiori caduti dei giorni di Mohamed Assaf (12), i trittici materni dicono dell’amore come cuore del mondo, segreto ed enigma dell’essere, silenzio e genesi, nuvola immensa.

Il dolore e la gioia, i luoghi (come l’Ungheria di Vivien Urban o «il piccolo brano in un grosso libro» di Cowley Road, scritto da Asima Qayyum, di diciassette anni), il segno potente della coreana Han Sun Nkumu (17) investono il genio scaltro delle cose, anche nel cuore diviso, nel punto incidente della dimensione temporale, nell’inferno talebano o nel sangue indimenticabile di ciò che amiamo.

Le penurie, le miserie e le sofferenze sono meravigliose albe che in questa antologia, o forse sarebbe opportuno chiamarla scaglie di pagine, narrano della quotidianità, riportando sorriso e casa, e lasciano, infine, un sentiero nel colore dei cieli: «Mi manca la terra / dove sono nato e cresciuto. / I nostri sogni sono là / ma il mio destino è di non essere / a Damasco che mi ha dato l’anima. / Damasco dove il sole sorge nella mia stanza / e gli uccelli cantano alla mia finestra. / Damasco, mia madre» (Mohamed Assaf (12)).

AA.VV., Le colombe di Damasco. Poesie da una scuola inglese, a cura di Kate Clanchy, traduzione di Giorgia Sensi, Lietocolle, Faloppio (Co) 2020, Euro 17.

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