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Le laudi di Patrizia Valduga

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È un canzoniere di beatitudine e di perdita, l’ultimo testo di Patrizia Valduga, il Libro delle Laudi, edito da Einaudi.

Si situa come una linea continua e un dialogo vivido con Giovanni Raboni, «infinitamente amato», come recita la dedica al libro, morto nel 2004.

È un libro che nasce dal silenzio e che dal silenzio trova linfa ininterrotta, spasimo di tensione.

Rimane ferma ancora la sua Lezione d’amore (2004), quasi come se le trame finissime che popolano la sua pagina conoscessero il loro acme, la loro dichiarazione netta, l’interno d’anima.

È un testo di nuclei, di esperienze profonde, di dono.

Conoscere la pagina di Patrizia Valduga significa percepire la chiarità dell’abisso, ma anche il buio della mancanza che fluttua nella luce e scegliere la lauda, come matrice di canto, è uno stupore che circonda l’esterno, che rintraccia la materia dell’affettività, con una metrica cesellata, con un frammento in un fondale.

Il fondale del commiato da un’anima cara, che pur conoscendo il distacco della perdita, si nutre di dialoghi e di speranze, dove il proprio amore  si insedia nell’eterno, o meglio nella traccia dell’eterno: «Signore della morte e della vita, / nessuno più di lui merita vita. // Signore di ogni tempo e di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita».

Un libro fatto di litanie e di pause, dove lo spazio del poetico diviene abbraccio di pagina. Patrizia Valduga fa avvertire la potenza solenne e l’accorato slancio di un’anima amante, che porge al lettore le gradazioni dell’umano che vive: «Di luce in luce vengo verso te, / e la luce si fa sempre più chiara. / Poso la testa sopra i tuoi ginocchi… / Sto bene… Ce la faccio, anima cara… / Guarda! Il cielo è sereno… È tutta luce / la neve sulle cime dello Schiara!».

L’indicibile delle vette sono il cammino dello sguardo verso l’altezza profonda di una forza vissuta, di un tramite verso la bellezza di una luce che rischiara, anche nell’invettiva, nella satira, nell’oltraggio: «Quello che era per noi gioia e dovere / ora è abominio d’ignoranza e inganni. / Il mondo letterario mi fa orrore: / ormai ci sono solo giornalisti. / Non si sa più cosa sia la cultura, / perché la fanno solo i giornalisti. / Scrivono scrivono scrivono… da / sfinire l’infinito, i giornalisti. / Così le librerie cosa le ingombra? / La prosaglia di tutti i giornalisti».

È il segmento infinito di un’esperienza vissuta con la potenza di un riscatto, con un canto e un alito di vita: «Resisti, amore mio senza respiro: / ho il cuore in te, per te tiro il respiro.// Giovanni, vivo più della mia vita, / tienimi in vita finchè tu sei in vita».

L’amore vero, autentico è conoscenza di sé, l’io-in relazione al tu conosce la propria radice, la propria singolare identità: «Tu ci sei, Giovanni, e non ci sei, / e mi tieni davanti alla paura. / Non posso più scappare da me stessa: / mi scova ovunque la tua luce pura».

Ciò che colpisce nelle trame bianche e nere di questo testo è la misura ampia di un rapporto, fatto di cenni, di brevi istanze.

Il dolore è il ritmo della lode, ma esso stesso è abitato dalla lode che pacifica e compensa: «Sii adorato, amore risplendente! / Splenderà la tua opera per sempre// che porta impressi la tua eroica mente/ e il tuo eroico cuore…Grazie per sempre!».

Viaggio d’amore dentro l’amore, per un uomo e per ciò che quella creatura ha rappresentato in un itinerario di campiture e di accensioni poetiche.

La struttura poetica di Patrizia Valduga è uno spasimo dentro un canto, ma è anche impronta nitida di un processo ampio ed esistenziale di visione, di abbraccio oltre la morte, che non chiude il cerchio, ma anzi lo apre alle infinità dell’essere, alla luce accecante della chiarezza dell’abisso.

L’invocazione alla poesia non è astrazione estetica. È la domanda alla persona che quella materia ha incarnato, mentre ora il presente miserabile e l’intorno sembrano rinchiudere i tratti in una prigione misera: «Adesso, amore, metti insieme tutto: / angoscia e rabbia, panico e piacere, / e amare e non potermi abbandonare, / fare l’amore e non poter godere… Ed è così che la poetessa erotica / ha un erotismo che non ha due anni! / Capisci, vero?, quello che ho capito… / e ci ho messo cinquantacinque anni… / Ma questo male impresso nella mente / mi ha portato da te, vero?, Giovanni…».

Carne, nervi, cuore, respiro, queste tonalità di accenti abitano la sua poesia come nodi e sentieri ispirativi, che fanno della sua interiorità un cenno grande di stanze: «La pace sia con me adesso e prima…/Salda, Giovanni, il cuore che si spezza…// Sappi che vivo grazie a te che vivi/ più di ogni vivo…sei la mia fortezza.».

Sulle cime dello Schiara la sua anima trova un sorriso, nei viaggi della luce il suo cuore abita la chiarità, come un cenno di cielo. Come un sorriso.

PATRIZIA VALDUGA, Libro delle Laudi, Einaudi, pp.60