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L’elegia di Teognide

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Il cittadino della Megara Nisea, Teognide scrisse elegie nell’ultimo decennio del sec. VI e nel primo del V e alcuni scrittori, come Platone e Isocrate, lo ricordarono sovente tra i migliori esponenti della poesia gnomica, ossia di quella forma poetica che si risolve nella nettezza di una sentenza conclusiva e quasi proverbiale e formulata in distici elegiaci in esametro e trimetro giambico.

Ma attorno a questo poeta si addensò nel tempo, già un secolo dopo la sua morte, una forte presenza di imitatori, il che determinò un problema di attribuzione complesso e variegato.

Teognide fu aristocratico spodestato di una zona vicino all’istmo di Corinto, sotto il regime democratico e dopo la caduta del tiranno Teàgene, sebbene una fonte dichiari sua patria Megara Iblea, città siciliana fondata proprio dai Megaresi greci. La città fu poi distrutta da Gelone, signore di Siracusa, nel 482, ed è molto probabile che Teognide sia tornato allora in patria, dove trovò i suoi beni sequestrati. Potrebbe darsi, infatti, che egli nato in Grecia, si sia stato esiliato, prima a Eubea, poi a Sparta e infine proprio in Sicilia (vv. 783-788 «Io giunsi infatti una volta alla sicula terra e giunsi nella piana d’Eubea fiorente di vigneti e a Sparta, splendida città sull’Eurota folto di canne, e tutti al mio arrivo mi salutavano con affetto: eppure nessuna letizia venne al mio cuore, chè nulla m’era più caro della mia patria»), dopo la rivoluzione, come attestano san Girolamo e il lessico bizantino Suda. Quest’ultimo evento è stato ipotizzato in virtù della frequenza dell’esperienza nel suo corpus elegiaco di disagi e pene d’esilio, che sebbene evidenzino una esperienza individuale, è lecito pensare piuttosto a una sorta di esperienza generazionale; così come la sua presunta povertà, attestata in molti passaggi di testo.

Esso ci è giunto, attraverso alcuni manoscritti, in una raccolta di 1389 versi, divisi in due libri. Si tratta di componimenti in distici elegiaci di varia estensione, alcuni dei quali appartengono ad altri poeti (Solone, Mimnermo, Tirteo), scritti probabilmente in un’epoca posteriore a Teofrasto (età alessandrina). L’atmosfera delle sue elegie ha una cromatura quasi esiodea, muovendosi in un territorio che si preannuncia petroso e arcaico. Lo spirito e il canto appaiono sottomessi alla tonalità di un frammento sentenziale, alla pericope di pochi sentimenti che dettano il cuore delle cinta di mura della sua città. Il nucleo originario è costituito da un gruppo di elegie rivolte a un giovinetto, Cirno, figlio di Polypais, al quale l’autore indirizza suggerimenti morali e riflessioni di vario genere, come egli afferma tra il v.18 e 27 del primo libro: «O Cirno, io col mio canto voglio apporre un sigillo a questi versi, né mai saranno rubati di nascosto né alcuno guasterà quel che hanno di buono, e così ognuno dirà: «sono versi di Teognide, il Megarese». Fra tutti gli uomini è illustre il suo nome». È il fanciullo particolare a cui rivolgere il documento di ambizioni e aneliti e dal quale ricevere ben poco.

Il sigillo (σφραγìς) che garantisce e custodisce la proprietà dei sui versi, richiama non solo la formula di Focilide o l’omerico Inno ad Apollo («il cieco che abita nella ripida Chio»), in cui l’aedo dichiara la sua personalità, ma il signaculum, come garanzia di autenticità contro ogni musaica falsificazione, è attributo «quanto originale e lontano dalla vieta formula focilidea, per garantire la genuinità delle γνῶμαι. In tal modo noi abbiamo un criterio esterno, per potere individuare nella silloge l’opera del poeta».

L’apertura delle elegie con il vocativo Κύρνε offrono dati precisi sulla personalità e sulla biografia del poeta. Non solo l’amasio del poeta, ma forse il «fanciullo» a cui destinare i precetti dell’aristocrazia megarese, come situazione etico-biotica di un determinato strato sociale e espressione di appartenenza di tutto un gruppo: «A differenza di quanto accade per l’epica, legata ad uno statuto di vita itinerante e a contatti eterogenei, e per la lirica corale professionale, legata ad una precisa committenza statale o individuale, la produzione elegiaca pederotica che abbiamo nella silloge teognidea rappresenta, in quanto portavoce di un codice di comportamento comunitario, un’identificazione totale e naturale tra autore e pubblico» (M. Vetta).

L’amore si presenta come follia e tradimento: egli lo insegue, ne cerca la meta condivisa, ma sopraggiunge il timore e la delusione affettiva e pedagogica. Il limite di un amore difficile e segreto, che, come il cavallo guidato da un cattivo fantino e che torna sazio alla stalla, manifesta la cupezza di un’esistenza destinata a una fedeltà caparbia.

Di fronte alla nuova realtà che avviene nella sua città, in preda alla decadenza sociale e morale,  Teognide sostiene uno sprezzante rifiuto, manifestando il timore per l’arrivo di un possibile tiranno e l’odio di classe per gli esponenti del demos, che lo costringono a vivere in un regime popolare e a confermare la solitudine e il rancore per la scomparsa della antica nobiltà di stirpe: «Montoni e asini e cavalli li vogliamo purosangue, o Cirno, ed esigiamo che montino femmine di razza. Invece un nobile non si fa scrupolo di prendersi in moglie una plebea figlia di un plebeo, purchè gli porti molta roba, né una donna di nobili natali ricusa di andare sposa a un plebeo ricco: le preme solo che sia facoltoso, non che sia nobile… Venerano il denaro! Il nobile sposa la figlia di un plebeo, il plebeo la figlia di un nobile, e così la ricchezza mescola la specie. Dunque non ti stupire, o figlio di Polipao, che si confonda la specie dei cittadini: si mischiano plebe e nobiltà». Le due parole chiave, «cittadini» e «capi», configurano una tipologia opposizionale che coinvolge differenze e occasioni di scontro. Dall’esilio subì il residuo di una mancata amicizia con la sua terra. In uno dei rari momenti lirici della sua opera, il richiamo dell’uccello annuncia l’imminente stagione dell’aratura. Sembrava non rassegnarsi mai alla perdita della campagna, forse tentando poi la via del commercio.

In un estratto trasmesso da Stobeo, di dubbia attribuzione, su una perduta opera di Senofonte Su Teognide, si legge: «questo poeta di nient’altro ha fatto parola se non delle virtù e dei vizi degli uomini, e la sua poesia è uno scritto sugli uomini, proprio come se un esperto di cavalli scrivesse di equitazione. Orbene il principio della sua opera mi sembra appropriato: comincia infatti dal tema del nascere bene. Riteneva in realtà che nessun essere, né fra gli uomini né fra le altre creature, può essere valido se non sono validi coloro che si apprestano a generare. Gli sembrò dunque opportuno  far l’esempio degli animali, non già di quelli che sono allevati alla cieca ma di quelli che vengono allevati singolarmente con metodo affinchè riescano quanto più puri possibile».

La sua gnomica si afferma nel simposio e si genera nella vita, in una prospettiva dolorosa, mancante, amara. L’istituzione centrale e rituale del mondo greco è una pratica che vive su quattro punti chiave: maschile, aristocratica, egualitaria e incentrata sulla bevuta. Il simposio, pertanto, rappresenta, in Teognide, il luogo dell’enunciazione poetica e artistica che vive su vari livelli, come palestra di sapienza, come cimento politico, e infine spazio dell’omosessualità e principio dialettico e pragmatico, come afferma Bruno Gentili.

Il tormento del dolore incipiente nella esistenza e nell’esistere si traduce in una desolazione vuota e mortale, come un “Giobbe greco”, secondo l’acutissima definizione di Bruno Lavagnini, che si rivolge a Giove, che può punire o premiare nella discendenza: «Come mai, o figlio di Crono, la tua mente accetta di tenere in pari conto onesti e delinquenti, senza curarti se la mente degli uomini si volge a moderazione o a tracotanza, quando si lasciano sedurre da ingiuste azioni? E non vedo discrimine certo che un dio sancisca agli uomini né la via da percorrere per piacere agli immortali […] e tuttavia hanno ricchezza intatta, e invece coloro che tengono il proprio animo lungi da turpi azioni ecco che si tirano addosso povertà, madre di impotenza, anche se amano la giustizia».

I mali e le tristezze dell’esilio, la caducità fugace del dettato dell’esistenza, il vino, l’amore, la musica, l’odio per gli avversari «dal sangue nero», assurgono al loro sottile lampo canoro e la sentenza, raminga e lontana, è animata da un soffio vitale, rude e schietto, che se da un lato afferma la classe degli ottimati, dall’altro le esortazioni e le disposizioni del suo verso denudano il dramma di una sconfitta che si annulla ma non agonizza, strenua nel suo passato irrevocabile.