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Mango: le scaglie delle carezze

mango [1]

Riscoprire e riassaporare il fascino dello stupore dei versi di Mango (1954-2014), a un anno dalla sua morte improvvisa, significa rivelare lo scrigno del mondo, il volo di labbra che diventano suono e il respiro che solca stagioni e cerchi: «La poesia è un bene prezioso, per me è un innamoramento mai finito, è come lo scoppio d’un glicine quando non ne può più di nascondersi alla primavera e allora il suo profumo scivola dai grappoli fino ad aggrapparsi all’aria sottostante, che con un soffio leggero leggero lo sposterà verso un paesaggio costiero appena dipinto».
Raffinato compositore ed autore, che ha saputo discendere ogni frazione lirica, ogni voce che non fosse penetrante inchiostro di suono, in vita ha pubblicato, per la bolognese Pendragon, due raccolte di poesie Nel malamente mondo non ti trovo (2004) e Di quanto stupore (2007), mentre I gelsi ignoranti (2014) era il terzo libro al quale stava lavorando prima che la morte lo portasse via. Di recente, è uscita, sempre per Pendragon, la sua opera completa, curata dalla moglie Laura Valente e dai figli Angelina e Filippo, che contiene anche questo suo ultimo lavoro, risultato di una scrittura che diviene pietra lucida, penetrazione vibrata e scagliata in un raccolto sospeso e quotidiano.
L’amore di ritorno, il risveglio del sole, la pioggia goduta sui passi, la poesia che non si trova nel suono del malamente mondo, come recita la sua prima raccolta, raccolgono un’intima stanza interiore che apre la sua balconata alla realtà, con la sottile grazia di una carezza di gocce solitarie in penombra, come di chi preferisce «costruire muri sui fianchi del cielo» e noi siamo veli: «Gocce solitarie in penombra / tra sassi di sale assolati / e silenti come antiche madonne / nel grembo di chiese assopite, / tra volte di gesso volate su in alto, / rigonfie di troppi peccati / e ginocchi lisciati, arrossati dal legno di panche / ormai spoglie di lacrime e incensi. / Gocce solitarie in penombra. / Non me ne voglia il vento / se, a volte, non seguo le sue distanze, / ma preferisco costruire muri sui fianchi del cielo. / Dall’anime prudenti, / con grappoli di neve alle mani, / si riconosce un sesso pure agli angeli / che rubano stelle cadenti, / colorandole d’azzurro a riportarle in cielo. / Oltre l’immenso consumo di occhi. / Dove le parti non esistono / e anche le rose hanno un nome. / Dove noi siamo veli / e le giovani spose mandorli d’Israele».
La purezza dell’amore ha carnalità piena e sospesa, trema nella saggezza concimata, affiora nella appartenenza eterna, in ogni dettaglio della realtà che chiede crune dove perdersi: «Così gli orizzonti son acque / e tutte l’acque spavento negli occhi / e gli occhi? / Flanelle per l’inverno. / Somministrato un delirio / ne amiamo sollazzo di serpe in amore; / partecipato un dolore ne usiamo disprezzo, / come dama tradita ne tratteggia un dovere».
Ogni rifinitura aperta sulla realtà condensa il mondo interiore, nel fondo che palpita, nell’offerta di una magia nascosta nell’ombra di una loggia infocata e nel sorriso raccontato e sdentato di una vecchia, ricolmo solo di antichi sassi che quasi scherniscono la morte mentre riportano il ricordo di un amante lontano, e gli uragani impauriti possono diventare brezze di maggio e fermate di sole: «Vecchie, affusolate ai rosari, / con bere cornici di scialli / e visi come sciacalli. / Ossa sfuggenti / ad ogni incrocio di occhi silenti / ad ogni nuovo, antico, basilisco / stupore / portato da un vento di tramontana. / sorriso senza denti, / come sassi smossi dal fiume / quasi a schernire la morte / che invitano a sera, / come un amante lontano / fuggito dal cuore, / nato ancora per caso, da poco / non più ritornato. / il piede dà il tempo / a un tranquillo lamento / come pelli battute a tamburo / dai nodi di ramo di faggio / in cerca di preda impaurita. / «A’ loggia» infocata dal sole, / riverbera fatti lontani / e magie più nascoste dell’ombra».
Nel ricordo, nell’attesa aspettata che rinfresca gli odori dei colori dei tulipani, nel confine dei trapezi falliti, come le siepi che sembrano mangiucchiare i confini, il cuore del corpo anela alle calate degli occhi, alla sabbia soffiata dal fiato, per un bacio, che unisce amore e morte, che sala il mare, fino a quando «I cormorani si alzeranno in volo, / fino a bucarlo, quel cielo / e farlo cadere sulla notte, / finchè d’azzurro sia vestito / ogni attimo o qualsivoglia tempo vissuto / o finalmente perso / in uno spigolo di vento di vento assoggettato a me, / amore mio / e non all’emozione che segue il respiro».
L’amore conosciuto che ha volto (A Laura), gli occhi che riflettono la densità degli istanti, implorano la compiutezza e il dialogo infinito tra anima e cuore che fa cercare il profilo, carico di rughe, rimasto tra i gerani, mentre guarda lontano dove è più «difficile soccorrere la luce / che perde nel confrontarsi col mondo / degli uomini».
La voce rappresenta la prominenza di sguardo che ribalta il niente, prima che le soglie diventino fretta, come una mano presa sottovoce: «Io ti vorrei parlare / sottovoce, non far sentire al cuore / quello che ho da dire / condizione essenziale / affinchè tutto sia migliore, / puoi scommettere il cielo / che è vero più del vero. / Io ti vorrei parlare / quando gli occhi non hanno più / risposte nuove / con parole annodate lì, non sai da quanto, / Io ti vorrei parlare…/ prima che il vento porti via le foglie, / prima che un gesto poi non serva a niente, / la coerenza è un destino incerto per ognuno, / prima che sia più forte / più del tuo profumo, / prima che il tempo passi a un altro amore, / prima che il gioco sia di non partire, / al di là dei discorsi fatti e della gente, / anche prima di avere fretta, fretta come sempre. / Io ti vorrei parlare / per capire qual è il tuo senso delle cose, / se quel vuoto ricresce già con nuove frasi / dette come sempre / a ribaltare il niente».
La fertilità del suo mondo è popolato di fiori, foglie e frutti (aranci, gelsomini, ciliegie, castagni, melograni, glicini), di profili e vento, di prati e cielo, di baci e mare: sono anafore di sogno e vita che frenano l’alba fuggita dal buio, che sorridono alle campane e ai ponti come soste, fino all’arsura delle perle d’acqua e al sussurrato incanto del cerchio della trasparenza dell’intimo incenso. Eccolo questo frammento d’immortale: «Vorrei toccarti / per capire se esisti / e non siano le briciole delle mie vene / a coagularti in me, / frammento d’immortale. / Non so se il tuo volermi bene / appartiene più a me che a te, / ma di certo quella stella che cade / è come un sogno senza fortuna».
La terra di Mango è la Lucania vocale dei lupi e degli orizzonti come unico cielo, vento donato al pianto senza voce, al suolo che è sabbia e nuvole, come la lettera a un amico che possa sentire l’alba che sboccia nella trapunta di diamanti e nel faro che ci indica il cammino, o la Lagonegro del ’54 nel viaggio «tra le viole d’autunno che garbano le piogge sottili» e gli abbracci inventati, tra le castagne infornate e le «compagne d’Aglianico, / di canto sensibile all’eco invisibile del cuore».
Mango non esplora i sentimenti: sarebbe un fatuo incendio, bensì lambisce una dimora, sfiorando, la bellezza lucente del vivere e della vita in ogni cromatura e scorza, in ogni estate di preavvisi, come umana sproporzione incandescente che azzurra i giacigli: «I sentimenti non capiscono i vuoti spontanei, / li sposano. / Ricoprono di latte l’incarnato / e le mani rasentano nuovi sudari, / come “Cristi” inchiodati a un nuovo respiro». È la sua traccia di ciclamini e fuliggine, il firmamento immaturo dell’amore, la transumanza dei secoli, la canzone ferita e la paura, e l’eccesso della bellezza nascente: «Le labbra son di terracotta, / due ali a pelo d’acqua / e come cammini e nobiliti il volto. / C’è troppo cielo stasera / intorno al tramonto, / forse / è più facile lasciarsi andare / che fare finta di non morire. / Così son le cose, / immortalano le loro stesse cose / e noi a guardarle».
È lo stupore l’impronta della sua composizione. Non solo lo stupore per ciò che accade e per la vita che si propone ma anche per l’altro, o meglio, per il rivelarsi dell’altro, come sequela di domanda e splendore: «Di quanto stupore / io posso ancora amarti, / pioggia fuggita dal cielo? / Di quanto stupore, / spigolo interminabile, / in cerca d’un angolo d’infinito? / T’avrei cercata se non fossi mai nata, / t’avrei trovata nido d’acqua salata / ad aspettarmi fiume, / tra grano e ranocchi saltellanti / di salti più alti del mio respiro. / Di quanto stupore / io posso amarti, / se ladra giù rubi dell’amore parlato per te / e ne tingi pareti e parole / da cui dipendo e vivo? / Di quanto stupore / chino sulla notte ti osservo, / cosìcchè, ogni cosa d’oggi ti possa volere? / Di quanto stupore / io posso ancora amarti, / pioggia fuggita dal cielo? / Posso amarti pensiero di marzo? / Posso amarti da riderne e piangerne ancora?».
Le scaglie delle carezze sono catalogo che ruba la luce all’acqua, giocano d’immenso come se non facessero confine o si sapessero annodare, si poggiano tra le labbra senza farsi sentire, sfiorano gli occhi chiudendoli nel dono di un tempo che ritorna, tra alberi e arcobaleni, stelle e dettagli ardenti che frantumano il petto nella luna crescente delle lacrime.
La scrittura allora diventa attimo esistente, segmenta il sole d’agosto «tra fiamme d’ulivo e ginestre», si allinea nel sussurro di una incrinatura di luce, si incaglia nel petto, ferma le piogge a mezz’aria («Ma dolore è anche attesa di te / se le piogge son ferme a mezz’aria / e terre spalancano bocche / saggiando quel dispari cenno d’amore / che sempre più spesso mi vuole / e mi duole come destino, / disegnando e cancellando, / disegnando e cancellando / quel fiore per te»), preme le vette ferite come terra di farfalle e dicembre di aranci, perché essa è l’esito di un perpetuo alito verso l’alto («Dal cuore, a volte, / partono le sofferenze del moto di Dio / e s’apparentano con gli angeli»), tradotto verso l’alto, dilatato in una memoria di «verbi veloci» e canto al sole dispiegato: «Non è la conoscenza di te / ma il sospettar che m’ami, / che in quest’ora testimone / m’ottenebra, / come se non riuscissi ad aprire / la luna. / Tra le mani ho l’addio più breve / e l’assalto più lungo alla vita. / Tra le mani ho l’infanzia e la pioggia, / ho l’amore più sano fatto a pezzi / e poi resurrezione in terra di farfalle. / Le mani s’intrecciano dove le dita / si baciano / e si baciano firmamento o qualcosa che voli, / qualcosa che voli sulle mie carni, / bendisposte alle nuove coscienze. / Come passante e cintura, / il futuro s’intona d’amore e di voci più calde / di labbra. / E tu?».
Nella dimensione aurorale e interiore viene alla luce il segno di fiori peculiari e splendenti che «nell’isola preda dell’onda / e petali rovistano il cuore / transumando la carne all’odore / come parti dello stesso rumore», l’accenno, la solitudine e lo sguardo, gli occhi cerchiati e le rose.
Esse si trattengono nella sospensione di una interminata letizia, rimaste a guardare la pazienza degli angeli: «Accelero il destino che si perde / e ne faccio India assetata di fiume. / Fame rossa d’amore e stanchezza. / Assecondarti a me è disciplina di carne e sospiro, / mentre sento i miei gelsi ignoranti / aggrappati a cavalli impetuosi, / che cavalcano l’onda come criniere di miele. / Saltiamo carrubi e melograni / noi che siamo saltatori. / Io gelso ignorante e tu in aggiunta / e poi l’approssimarsi del contrario / non sappiamo capitare a proposito / ma negli egoismi involontari siamo veloci» (I gelsi ignoranti (Il talento delle rose).
L’appartenenza, l’entusiasmo del cielo, le canzoni nelle mani, le frasi nuove, le sentenze del cuore nel sole gravido di occhi sono il segnale di una gratuità infinita e di una prossimità amata in un attimo crudo di storia che «stringe alla gola e soffia forte sugli occhi / e in me la forza è di baciarlo / non come si bacia un altare o una morte in casa, / ma come si bacia un ritorno. / Non avvilisco quell’attimo con la punta / delle parole, / perché quell’attimo è come la terra degli uomini, / sottile e facile da guardare. / così fai vita al controumore, / quello esaustivo del guardarti dai piedi, / o nel prendere in mano le mani / baciare il sudore. / Dove l’albero delle rose sparisce / nel sonno d’un amore appagato, lucido, ammansito / tra il pensare distratto e il sapore di pelle / che è nel tuo movimento».
Il teologo Tolentino Mendonça, a proposito della gratuità avuta in dono, scrive: «Se dovessimo fare l’elenco di quel che riceviamo dagli altri (ed è un peccato che tale esercizio non ci sia più abituale), comprenderemmo ciò che la poetessa Adília Lopes ripete come sua verità: «Io sono un’opera degli altri». Tutti lo siamo. La nostra storia è cominciata prima di noi e proseguirà dopo. Siamo il risultato di una incommensurabile catena di incontri, di gesti, di buone volontà, seminagioni, carezze, affetti. Cogliamo ispirazione e senso da vite che non sono nostre, ma che pazientemente si chinano su di noi, illuminandoci, fondandoci nella fiducia. Tutto questo movimento, ben lo sappiamo, non ha prezzo, non c’è luogo in cui si possa comprarlo: soltanto attraverso il dono si realizza. Per questo, quando esso manca, la sua indelebile assenza si fa sentire per tutta la vita. Il suo posto non può essere occupato da altro, per quanto possa essere oggi florida una potente industria di finzioni di ogni tipo, che ha l’inutile pretesa di essere oblio e surrogato di questa sorta di faglia geologica che ci strazia».
E questa carne d’amore cosa implora? A cosa protende il nudo perduto dell’anima che nell’oscurità che morde la luna lancia «coltelli di buio appassionato»? Di cosa profuma questo silenzio commosso delle cose in un battito d’ali pulito? Nella perdizione di un affetto annidato che sconclusiona il giorno e lo ricompone. Ecco la sua bellissima faglia, dentro la quale, si scorge la svestizione della terra nel cielo delle cose: «Voglio essere nudo quando il silenzio / dell’albero grande / mi chiederà compagnia per un tempo / senza riguardo. / Eh sì! La morte è proprio come l’amore, / anch’essa, come un grand’attore è di terra / e anch’essa poi muore con me, / nuda, / proprio come la mia vita».

“MANGO-tutte-le-poesie”-Edizioni-Pendragon [2]

MANGO, Tutte le poesie, Pendragon, Bologna 2015, pp. 190 , Euro 15,00.