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Sergio Zavoli e la strategia dell’ombra

 

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Sergio Zavoli (1923), con La strategia segreta dell’ombra, edito da Mondadori, scopre il viaggio della memoria e delle sue ombre incerte, scritturando l’adagio dei passi e gli indugi cauti.

Esso apre la scrittura alle connessioni del passato ma non forgiandosi nei dispositivi, bensì offrendosi al bivio degli allarmi e al dettaglio cadenzato che si fa coscienza. Della realtà, soprattutto, ma anche del sogno, del ricordo e dell’assenza frastagliata.

La nominazione delle cose è già dimora, allorchè nascondersi nel folto delle pagine, e nel bianco è strategia di occhi, vita protesa, manifesto umbratile, persino delle luci smagrite: «Chissà cosa vuol dire il cauto indugio, / tra me e me, da quando / ho portato sin qui l’idea bizzarra / di celarmi nel folto delle pagine; / ma al congedo, sul bianco della carta, / e il dito che non gira più i fogli, / avevo sotto gli occhi le orme incerte / del viaggio, e volevo sapere dove andavo / con quel poco».

Quella stessa resistenza resiliente della parola, la sua vertigine confusa e lucente corre nel mondo, conservando ogni odore abbandonato «come l’ultima brace dei camini», «con la recisa nudità dei segni / sparsi ovunque», mantenendo il pudore della fedeltà alle cose e al loro orlo:

«Perché non dire cosa rimane della guerra / quando ci trova confusi nella selva, / assenti da noi stessi; / serbiamo la pietà nei viali stretti dei cipressi / pensando a un miserere che non può dirci / dove finisce il senso; / l’anima della Terra è ancora ignara del grave / adempimento, una bufera incollerita / sta correndo nel mondo / e l’uliveto ha i rami protesi come braccia».

La poesia di Zavoli possiede la significazione di volti e luoghi cari e addensati, carpiti nella polvere antica ma rivissuti in un esilio di ombre e di vele, di bastioni e spiagge, come fili d’erba nella crepa o un nido abbandonato. È la Rimini dell’anima, il luogo composito dei giorni lasciati, l’odore tremulo, il sole caduto tra le vele e i chiarori aperti sui passaggi epocali, o come Ravenna, unita in un pugno di calce nel giallo imperiale e rilucente tra basiliche e rosoni:

«Ed è venuto il giorno, mia città / con la luce smagrita, quel mattino, / prima ancora di cadermi dagli occhi; / al colmo della strada ti spartivi un odore / di barche e treni, un’aria già straniera / abitava al di là dei miei passi. / Ma sì, chiamalo esilio, / come dire sennò dei giorni lasciati / ai davanzali quando la sera assiepa / le ombre contro il muro, / il sole cade tra le vele del porto, / e noi ci incontravamo al primo scuro / tra gli alberi disciolti nei chiarori aperti / dalla Luna. / Mia città, dove pregai gli amici / di badarmi le mura, troverò il rosso / dei bastioni presi a morsi dalle granate / per aprirsi un varco. / Tornerò per stare, avevo detto, / immaginavo uno di quei canali / che abbandonano il fiume e vengono a finire / sulla spiaggia, poi in punta di piedi / entrano nel mare. / La mia città natale, Ravenna / ha il suo giallo imperiale che riluce / dentro le basiliche circondate da nebbie / in cerca dei rosoni per passare la notte / con la fissità degli occhi bizantini. / E io, in un pugno di calce, sto come / il filo d’erba nella crepa, / un nido abbandonato».

Il ricordo convive con la rastremata presenza della guerra e le sue devastazioni, dove la pioggia non risveglia lo smarginato splendore dei verdi passaggi dei soldati e le grida migranti di chi sbarca a Lampedusa nel dolore e nel sangue del mare, che consegna piccoli corpi trasparenti come le meduse: «Una mattina, al largo, il mare lascia dondolare / i corpi dei bambini nelle culle / aperte dalle onde, / mentre a riva il fanciullo piaggiato, / un cucciolo perduto dai delfini, / ha la morte con l’abitino rosso e le scarpine blu. / Il mare consegna di continuo / piccoli corpi trasparenti come le meduse, / e il petto simile / a una grata di vetro».

La ricchezza del rimanere nelle cose che passa e si svolge, porgendo i suoi bordi di siepi, fino alle ore stinte, e alla pace impossibile, come farfalle posate sui perduti. Ecco allora lo splendore-ombra, il momento in cui l’amore si offre e conduce la nostra anima al granire di vita, alla bellezza cruda dell’alba, all’apparsa chiarità che «arrivi su di noi / a farsi giorno, in viso, ogni mattina»:

«Non vivere aggrappato, come l’ombra, / a ciò che accade, / quando essere al mondo chiede / di lenire coloro che una volta / si chiamavano, semplicemente, i poveri; / non attardiamoci al bordo delle siepi / arrossate dai tramonti / mentre, per tutti, scendono le stinte ore / della sera. / La scelta era e rimane di restare dove / non vince o perde solo ciò che vedi; / ma è poesia che le farfalle, dopo la battaglia, / si posino indifferenti sui vinti uccisi / e i vincitori addormentati, e ci nascondano / di non aver visto in pace / l’umanità?».

A tal proposito, Rosita Copioli scrive:

«Soprattutto oggi ciò che traspare dall’unità di questo libro dalla perfetta struttura, culmine e sintesi in continuità di un passato che le parole della poesia hanno espresso intensamente, e ora – con «forza e grazia, ironia e gravità» – si illimpidiscono in un fuoco chiaro, che rende ancor più visibile la drammaticità del tempo attuale, nonostante i lunghi anni di pace. Credo che la sapienza formale e spirituale che irradia questo pacato “diario” poetico, frutto di una ascesi della scrittura, si manifesti attraverso il senso totalmente rinnovato dell’ “ombra”, già emblema di anima aggrappata all’accidentalità degli eventi umani e naturali, alla materia in divenire, alla fatica dell’incomprensibile “io e me”. […] L’ombra-poesia ha acquistato una tessitura di luce che ne fa quasi una sostanza veggente: occhi che si sono distaccati, e tornano a posarsi senza peso su tutto ciò che è stato ed è – la «selva oscura» da cui Zavoli è partito nel dopoguerra per il suo esilio laborioso, il qui e ora, dal cratere dove ciò che conta non è solo cercare se stessi, ma vivere con la guida dell’amore […]».

Il diario-ombra di Zavoli è il dialogo che si sofferma sulle idee incosummate, i progetti sospesi e rimandati, i voli promessi e precipitati, la sabbia che tende all’infinito e il mare che depone a riva la sua vita.

Il dolore, il limite, la morte, la guerra e il suo acciaio di ogni cronaca resistente discioglie l’abbandono e il tratto delle sere stinte.

Richiamano il desiderio di un attimo di madre (e la durata sostata e sottratta), che stringendo il tempo con le mani, farà squillare le cesure e le ferite, per ricostruire città sepolte e piazze in pace con le luci e le ombre tornate al loro posto, o la figura paterna tratteggiata in un istante estremo: «Rimini cadrà/ il 21 settembre del ’44./ Lungo le mura ormai disciolte dalle granate / saliranno i fuochi delle pire/ […] / Nato a Ravenna, lo stesso giorno, il 21 settembre del ’23, / crescerò nella città adottiva, dove i tedeschi, / sul punto di doverla abbandonare, / impiccheranno gli ultimi tre ragazzi partigiani, / l’uno accanto all’altro, sotto la stessa forca».

O ancora quando trovare la via di casa è dirittura di padre e madre insieme: «Bisognava indovinare la traccia / per trovare la via di casa / tra le occhiaie lasciate dalle bombe, / ritornavano agli occhi, madre, / gli sguardi brevi come ricci di nube / che escono dal grembo / quando il sole avanza / per far strada all’attesa / di lui, dalla terrazza; / e che bellezza aveva, padre, / quel passo verso casa, / due sponde di cemento non avrebbero fatto / la via più diritta».

Il ricordo si libera dalla guerra e il sogno dai detriti sveglia i residui. Occorrerebbe un vento che ridestasse e ristabilisse l’umano, dice il poeta, e «che avesse la facoltà di far salire / nell’azzurro del cosmo / un suono destinato a portare / il grazie della Terra a chi, forse un angelo musicante, / aveva dato al pianoforte roco, in quei mattini, / un suono così umano».

La poesia afferma il ridestarsi della coscienza, insegue l’equa saggezza paterna e le figure care, con aria imprendibile e densa ma mai avvinta. Il volto chiaro dell’amore si volta a guardare il sole salire sulla docile doppiezza del possibile, smotta i suoi fiotti di vita, spodestandola («Solo la pace incarna la bellezza dell’alba / quando distende il telo / e niente arriva su di noi, / di più chiaro, a farsi giorno in viso») attraverso il lento scivolare dei silenzi:

«Mi proverò a sbucciare le parole / per riudire la voce rimasta tra le piante, / e rivederti chino, padre, lungo i bordi / dell’orto; / persino il crespo della salvia è svogliato / dai giri del salmastro tornati sonnolenti; / si prende mezza giornata di riposo, / ci spiegavi padre; / quella saggezza equa, sorridente, / somigliava ai tuoi occhi grigi e azzurri, / e noi fratelli ce lo dicevamo / a bassa voce».

È aria nuova e leggera, un pianto in consumato, l’odore della casa, il nido delle mani, la pace prolungata delle strette: «In un’aria leggera, / che si posava quasi sulle mani, / pareva di lambirci come uccelli; / le bolle albine dei platani / tornavano a occhieggiare, / non si diceva ancora che ogni pace / è un seguito di pianti in consumati, / ma le persone, ignote l’una all’altra, / in quegli incontri sconosciuti / si dicevano tutte qualcosa, / la città riprendeva a parlare»

O il ricordo di un amore lontano che destina le invisibili promesse alle ombre tiepide e ai dettagli incastonati come baci. Il passato si nutre di indicibile e non detto, negato e inconcluso e la mancanza dell’ultima meta, come un’occhiata, guarda «i segni delle stelle scese / dai miracoli d’agosto. / Accompagna i tuoi passi, lasciali risuonare, / diffida dei silenzi lunari, non t’innamori / un vuoto da cui cadresti stretta / a un’ombra, che ti muore addosso» :

«Ti dicevo / lasciati consigliare anche dai dubbi, / le più esperte spie di te; / goditi la bellezza / che sta tra la foglia e foglia / dalla pianta che sei, non tradire te stessa. / All’inizio, ancora infido, / ti portavo nei canneti, / poi nel bosco, sui prati, lungo i greti / dove ci dicevamo / le nostre invisibili promesse; / ci piaceva andare per ginestre e scarabei, / finchè scendevano le ombre ancora tiepide, / e a riva biondeggiava la schiuma / dell’ultima risacca. / Alla vita ci lega ciò che il tempo risparmia per il dopo, / si scriveva “ti amo” dietro il francobollo, / più avanti, sotto i tavoli, facevamo l’amore con i piedi / mentre sopra parlavano, ridevano; / io non sbirciavo più nelle verande per contare / la durata dei baci, quelli lunghi laboriosi; / meglio addestrarmi alla conquista delle camicette / con le asole in fila, due o tre già violate nonostante / i bottoni di guardia, / e indugiare nello scrigno delle tue / piccole dune. / Non amavo gli sguardi di traverso, / meglio un agguato, / non restare disteso sulla sabbia / e farmi ostaggio dei tuoi occhi, / mi chiedevo se andare sul bersaglio / o aspettare come i cavalli / davanti alla stazione in attesa, da Amburgo, / del treno colmo di ragazze, con / la scritta, sui vagoni, “Rimini ammore”»

Il ricordo non consuma i fatti, si attarda nei recessi e nei bordi, contendendosi i nostri piccoli delta, il nido dell’universo, i lampi dentro il buio, il sole che spegne le sue braci.

Poi Andrea e Valentina, l’ulivo interrato davanti all’uscio e il respiro del mondo «che dà la voce al mare, al deserto e al temporale, / scompagina le nubi, gonfia le vele, / sorvola le vallate di girasoli in viaggio / come tanti orologi tutti riuniti dallo stesso / istante, / scova i rami degli uccelli notturni, / e quando il mare approda / crea i piccoli golfi dorati dalla schiuma»:

«Dura poco il ricordo / attardato dai fatti abbandonati / ciascuno con parole consumate; / quando ero in viaggio per confuse strade, / senza numeri e nomi, cercavo una certezza, / non mi bastava credere / in ciò che succedeva, / il passato era un’immortalità scaduta. / Tutto resterà a lungo / nei recessi bluastri dove il vento / stipa piume e ramaglie, / foglie marcite e ghiande, / o viaggiano gli avanzi dei cantieri. / Ai bordi delle pozze insetti azzurri / pungono veli duri come allume, / il fiume e il mare si contendono i nostri / piccoli delta, e la natura assiste / a come si snatura. / Occorrerà guarire persino l’acqua / delle anguille incerte se tornare / dove i capanni hanno ancora le porte / spalancate con i piedi».

La memoria di Zavoli ama rapprendere i particolari scrostando ogni fuliggine, poiché la strategia dell’ombra riporta la realtà a esporsi, quando sembrava irrimediabilmente perduta. L’assenza è l’invenzione del tempo che non riesce ad oscurare ciò che è stato perché è e sarà.

Franco Manzoni afferma:

«Immagine è il superamento dell’inesorabile usura dell’essenza, la genialità di una percezione in perenne cambiamento. Spazio e tempo conciliano visioni, frutti di ricordi che riaffiorano dall’inconscio. L’attimo coincide con la realtà e contemporaneamente richiama ai sensi del mistero. E l’esistenza umana sta racchiusa in un capocchia di spillo, l’eterno istante ove confluiscono perplessità, dilemmi, istanze, la sconcertante fragile profondità delle nostre passioni. […] In forma perentoria, essenziale, priva di smarrimenti, il poeta analizza il limite invalicabile della condizione umana, registrando gli eventi, astenendosi da manifestare sussulti di ribellione contro lo stato delle cose e la tenace impenetrabilità dell’assenza divina. Non per questo Zavoli si cala nella cupa solitudine del deserto e dell’incomunicabilità. Anzi, con intima irremovibile evocazione analizza i fenomeni accaduti nel passato, che arricchiscono di significato il presente e quanto ancora rimane da vivere».

Ed ecco l’estate lontana del ricordo delle foglie «con gli spazi più adatti ai diritti / dell’ombra», i teli sconosciuti di Roma, i bisticci della luce sulla polvere di casa tornata a brillare, e, infine, la moglie Rosalba. L’innominata felicità non ha fine sul numero più breve e intenerito di parole e il segnalibro salvato dall’incendio nella vita scavata:

«I nostri inverni, così lenti a scaldare / il casale, / li annunciava lo scontroso odore / dei vani inabitati, / finchè all’alba sotto la cenere del pino / brucerà ancora l’imbiancato grumo / della resina, e una tenera quiete colmerà la casa; / tranne le scale, / escluse dal tepore / con il freddo rimasto nell’armadio / delle coperte da usare solo se gelava. / Adesso mi riscalda quella notte / che ti trovai seduta sull’ultimo gradino / e ti muovesti per far posto a entrambi. / Stemmo in silenzio un tempo / più lungo dell’inverno, sapendo / di doverci il numero più breve e intenerito di parole; / erano rari incontri di quando / cercavamo, nelle fotografie distese sul tappeto, / una a lungo innominata / felicità».

Il diario poetico di Zavoli, salutato da Carlo Bo come inizio di vocazione e affastellato nella perfetta aderenza di coscienza e immagine, si sofferma sull’amico Federico Fellini, quando si interrogavano su come sarebbe andata a finire e sul bivio della propria fede inferma. L’interrogazione dell’uomo chiede e domanda all’orizzonte come vivere «scucite forme, travestimenti, dubbie altezze», il seme e il suo estro solidale che «s’intende con la nostra natura, e si colora, / e profuma, di quel bene comune» : «[…] a quale sponda avvinghierò le dita, / e cosa dirà l’ombra / assegnatami in partenza, / se per confuse strade sarò ancora / in cerca dei miei passi / secondo la legge inderogabile del caso, / e non sapere il costo / per affrontare le obbligate prove/ della mia fede inferma».

La caducità delle cose sembra impedire il rammaglio della realtà e il fondo delle notti scoscese, le sartie rimaste a galleggiare, le cadute e «il veleno è la memoria lunatica / di chi pazienta, aspetta, poi scompare / quando a unirci / è l’abitudine di amarsi».

Il dolore nascente del poeta è il luogo della riparazione, dove la domanda dell’esistenza insegue l’impotenza «di fronte a chi / ha l’ardire di volersi intestare / esso solo, / e col sangue, il Padreterno», la ricerca del senso che implora la chiarità dei dilemmi, la parola che compie e unisce, una pace dove imparare a vedere luci e ombre «anche quando la vita è quella / dove mi rimane d’essere ciò che resta / per capirlo» e la vita da tenere insieme.

I dubbi, le felicità frante, la fine liminale, la domanda e la preghiera umana condensano un abbandono  che racchiude il perdono e la bellezza che imprime su di noi il pensiero e l’amore, oltre il dubbio e la paura, la soglia e l’impotenza acuminata, affinchè non sia un viaggio nel niente, per ascoltare la voce più umana e inascoltata e «il simbolo che dica vincerà / la vita».

Si rivolge così a papa Francesco come una lettera lasciata nell’aria. I dubbi vengano stretti da Dio, fino all’ultimo tocco-amen di madre: «[…] Francesco, che non ami teologare / sulle domande appariscenti, / e sei esperto dell’umanità, / prega che Dio rimetta a noi i nostri dubbi, / li stringa a sé, ripeta a chi coltiva la speranza / che vincerà la vita. / Ogni tanto, sul punto di dormire, / vorrei sentire nella fronte le dita di mia madre / come quando togliendole diceva a bassa voce / così sia».

Zavoli S., La strategia dell’ombra, Mondadori, Milano 2017, pp. 93, Euro 18.

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