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Il Tempo di Woodstock di Assante e Castaldo

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Cosa resta di Woodstock dopo più di quarant’anni?  Per chi oggi ha vent’anni il nome Woodstock evoca probabilmente la grande folla di un concerto, il termine è oramai entrato nell’immaginario collettivo come stereotipo di una immensa distesa umana. Se solo questo è quello che resta, qualcosa deve essersi perso per strada. Il Tempo di Woodstock si propone di raccontarci questo qualcosa, di riempire il vuoto formatosi nel tempo e spiegarci l’evento Woodstock a tutto tondo per spazzare via i pregiudizi e restituircene un’immagine meno sfocata e sbiadita.

L’obiettivo degli autori è quello di rompere il velo di superficialità che aleggia intorno al festival di Woodstock, cercando di chiarirne la portata quale avvenimento culturale arrivato al culmine della controcultura degli anni sessanta. E per fare questo, gli autori dedicano interi paragrafi al contesto storico, alla nascita del movimento Hippy, agli  anni sessanta, decade certamente piena di contraddizioni nella quale la musica migliore era anche la più venduta. A Woodstock si riunirono le migliori menti musicali del momento per l’evento che avrebbe rappresentato l’istantanea di una generazione, la dimostrazione che quasi un milione di persone poteva convivere pacificamente per tre giorni ascoltando musica, nonostante un’organizzazione pionieristica e numerose circostanze avverse come la scarsità di cibo e acqua e la pioggia.

Il mondo stava a guardare questa enorme massa di persone che proveniva da ogni angolo dell’America per assistere ad un concerto che diventò gratuito ancor prima di cominciare, un concerto nel quale la sicurezza non era dotata di armi e si faceva chiamare <<Please Force>>.  Tutti gli osservatori si aspettavano un imminente disastro per poter esprimere il loro stucchevole <<l’avevamo detto>> nei confronti di un avvenimento in cui  troppi erano i valori contro-culturali in gioco: il comunitarismo, il rifiuto della guerra, le droghe, la differente morale sessuale. Il movimento Hippy  non si proponeva di cambiare la società, quanto di costruire un’altra società, al di fuori di quella <<ufficiale>>,  fondata su valori differenti. Va da se che ciò spaventava l’establishment.

Veniamo brevemente alla struttura del libro.

Dopo gli indispensabili paragrafi d’apertura, utilissimi ad introdurre il lettore nell’atmosfera di quegli anni complessi e pieni di capovolgimenti, comincia il racconto del festival. Racconto che già di per se è il  romanzo di formazione di una generazione. Scopriamo che Woodstock affondava le sue radici in altri due raduni, il Festival di Monterey e lo Human Be-In, entrambi del 1967. Questi due avvenimenti gettarono i semi per la nascita della leggenda e furono i primi mattoni della Woodstock Nation, come fu chiamata la popolazione che due anni dopo riempì la fattoria di Max Yasgur.  Scopriamo anche che il festival non si svolse a Woodstock ma a Bethel, piccola cittadina della contea di Sullivan, stato di New York.

L’inizio della storia ha assunto i contorni della leggenda. Michael Lang, già organizzatore di alcuni concerti di piccole proporzioni, vuole costruire uno studio di registrazione a Woodstock, un’area attorno alla quale ruotavano Dylan, Janis Joplin Richie Havens e altri artisti. Contatta così Artie Kornefeld, già discografico dal discreto successo, e i due decidono che sarebbe bello inaugurare lo studio con un concerto. Il sogno diventa realtà quando i Lang e Kornefeld  incontrano quelli che saranno i loro finanziatori, John Roberts e Joel Rosenman. << Giovani con un capitale illimitato cercano interessanti, legittime opportunità di investimento e proposte d’affari>>: era questo il biglietto da visita di Roberts e Rosenman, un annuncio quantomeno bizzarro pubblicato sul New York Times.

Comincia così il racconto che si concluderà all’alba  del Lunedi 18 Agosto 1969, quando Jimi Hendrix, davanti ad una folla che andava pian piano diminuendo dopo più di tre giorni di musica e fango ( aveva piovuto due volte), suona l’inno Americano con la sua Stratocaster bianca in una maniera così intensa e dissacrante da lasciare tutto il pubblico a bocca aperta, una furiosa esplosione di genio che la storia del rock non avrebbe mai dimenticato.

Il Tempo di Woodstock è un saggio semplice e chiaro, pieno di notizie e curiosità, venato da una leggera malinconia, nel quale Ernesto Assante e Gino Castaldo, due tra i migliori giornalisti musicali italiani, provano a raccontare l’anima e il corpo di un evento unico ed irripetibile nella storia del ventesimo secolo.

(Il Tempo di Woodstock

E. Assante, G. Castaldo

Laterza 2009, 15 euro)

Francesco Rauccio.