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Tex ha 60 anni

Il 30 settembre 1948, per la prima volta andò nelle edicole il fumetto “Tex”. Al modico prezzo di L.15, il suo formato era  a striscia rettangolare, come uscivano molti altri fumetti per ragazzi: “Capitan Miki”, “Il Grande Blek”, “Kinowa”, ecc. Esso si presentava sempre con la vivace e accattivante copertina a colori, caratterizzata dal logo che è rimasto, felicemente, identico negli anni fino ad oggi. Formato che è stato trasformato in quello “a quaderno”, con cui esce ancora oggi, circa una decina di anni dopo. Il creatore del personaggio, autore di gran parte delle storie è stato il suo editore Gian Luigi Bonelli; mentre l’idea grafica, gli spazi visuali e tutti i disegni erano del leggendario Aurelio Galleppini, in arte Galep. Insieme hanno dato vita ad un sodalizio che è durato tutta la vita. Oggi è il figlio, Sergio Bonelli Editore, continuatore, col suo nome, dell’attività del padre: egli stesso è tra i disegnatori ed autori delle storie del personaggio. Personalmente preferivo i sopra tre citati. Tuttavia leggevo “con deferenza” Tex. Voglio dire: rispetto al West favolistico di Capitan Miki o i grandi boschi di Blek Macigno, e il suo 700 così poco attendibile, c’erano dei dati di Tex che colpivano fin da subito: la sua dimensione spazio-visuale e il modo di trattare gli Indiani. Le sue gesta erano per lo più ambientate nelle zone semidesertiche del New Mexico, dell’Arizona  e spesso le paludi della Louisiana. Non i grandi spazi, quella vasta zona centrale degli Usa compresa tra le due coste, che è chiamata  “il Grande Cielo”, che fu anche titolo di un classico romanzo, anzi il capolavoro della letteratura western di A.B.Guthrie, e del film eccellente trattovi di Howard Hawks del 52. Non gli scenari che vedevano come protagoniste le grandi “nazioni” guerriere come i Lakota o i Cheyennes, che hanno fatto l’epopea del grande cinema western; ma quelli caratterizzati da popoli forse meno bellicosi, ma portatori di una civiltà culturale più avanzata, in generale, come i Seminole e i cosiddetti Pueblos; oppure specialmente nella elaborazione delle tematiche religiose come i Navajos-Hopi. Popoli che, peraltro, anche grazie ad un livello più elaborato di coscienza identitaria, non solo guerriera, hanno saputo meglio resistere ai processi di massificazione-distruzione operata dagli Yankees. Scenari per lo più poveri di vegetazione: dove però le insidie erano ancora più pericolose e inaspettate. Inoltre, in questa apparente monotonia esteriore, dal punto di vista visuale, “uscivano” tratti moto affascinanti di narrazioni misteriose, se non addirittura esoteriche, che sconvolgevano quella linearità, con rimandi a sottili interpunzioni horror e talvolta fantasy. Ma tutto ciò avveniva sempre con grane equilibrio narrativo. Tale da non mettere mai in discussione  l’asset strategico del fumetto. Anzi: era fatto in modo che questa aria di arcano, che aleggiava tra i misteri del deserto, confliggesse felicemente con la solida, ma non stolida, struttura diegetica del “personaggio” Tex. Essa era aperta, umana, assolutamente onesta, ma guardinga, curiosa e con un profondo senso dello scetticismo, che voleva andare a fondo alle cose senza farsi travolgere dalle apparenze e/o dalle varie bardature di tipo superstizioso e/o simil-religioso con cui si ammantavano bel altre volontà. Naturalmente, queste cose, quando ero ragazzino, non le coglievo con la presente concisione: però avvertivo la sua differenza rispetto agli altri. Egli aveva grande simpatia per gli indiani: li rispettava e ne era rispettato; accoglieva elementi di civiltà e di comportamento da loro, che poi “passava” a suo figlio Kit. Anche se non si sbrodolava in declamazioni retoriche e ideologiche (che tra l’altro il pubblico di noi ragazzini non avrebbe capito) e  in atteggiamenti esteriormente sinistrorsi di aperta critica ai bianchi, il suo fare concreto se ne discostava nella pratica: e ciò allora “passava” molto più incisivamente nella nostra fantasia e andava a fare parte integrante della parte di formazione attiva e, di fatto critica, affidata a ciò che non era scolastico: come oggi, nel positivo, i Simpson. Perché il nostro rapporto con Tex e similari, era settimanale: costante, rituale, immancabile: come la Messa. La nostra passeggiata all’edicola era un momento di pura gioia collettiva: perché poi questi fumetti ce li scambiavamo con golosa, gelosa, reciproca curiosità, insieme alle chiacchiere e agli apprezzamenti ad essi relativi.  Le sue vicende erano piuttosto elaborate e spesso prevedevano strutture psicologiche non banali. Siamo quindi in presenza di un prodotto letterario complessivamente in sé valido: a prescindere dal fascino della memoria identitaria e dell’amarcord. Il vero problema è la  difficoltà che la cultura “alta” ha avuto nell’accogliere questa che è oggi è chiamata “Letteratura Disegnata”, non più, spregiativamente, “fumetto”. Nella cultura anglosassone la chiamano “Graphic Novel”. Ha prodotto riconosciuti Maestri e capolavori, che hanno reinventato classici del fumetto popolare americano degli anni 30 e 40 come “Superman”, “Batman” , creandone nuovi. Da questi il cinema Usa sta arraffando a piene mani. Niente di tutto ciò avviene da noi. Vi sono stati maldestri tentativi: Diabolik, ad esempio –escludendo, però, il capolavoro “Totò Diabolicus”  di Steno del 62…-; e perfino un “Tex e il Signore degli abissi” con Giuliano Gemma di Duccio Tessari dell’ 85. Ma l’unico film che ha cercato di creare un solido e creativo spazio visuale-narrativo ispirandosi a un fumetto italiano è stato “Dellamorte/Dellamore” di M.Soavi del 94, tratto da Dylan Dog.