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“Umano fiorire” di Antonietta Gnerre: la liturgia dell’umano a voce bassa

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C’è una poesia che non alza mai la voce, ma che resta. Non urla, non dichiara, non aggredisce: mormora e attesta l’umano in ogni sua calibratura. Umano fiorire di Antonietta Gnerre, pubblicato nella collana Passigli Poesia, è una di queste scritture: un corpus in forma di orazione intima e cosmica, che attraversa il germoglio della terra, la memoria, la perdita e la luce con passo silenzioso e profondo, attraverso unviaggio nel tempo del dolore e della gratitudine.

Vincenzo Guarracino scrive: «Umano fiorire è una commossa dichiarazione di appartenenza a un ciclo vitale che unisce umano e vegetale, memoria e rinascita. Accolto in una tessitura di immagini che sanno di Irpinia, di colline, di orti e di stagioni, ma che al tempo stesso tendono a oltrepassare i confini del luogo per abbracciare l’universale […]».[1]

L’intera raccolta rappresenta un’ode alla cura della memoria, degli altri, della terra e del linguaggio. Si avverte una profonda eco di Etty Hillesum e Cristina Campo, citate in esergo e in epigrafi: la prima per la spiritualità nel quotidiano, la seconda per la tensione mistica e la precisione musicale e abissale della parola. Gnerre si inserisce in questa linea femminile e sapienziale della poesia, ma riesce a farlo con una voce personale, radicata nel suo territorio (l’Irpinia, la Valle del Sabato), nella sua biografia, nel suo essere madre, figlia, donna e poeta. E poi le finestre di una lunga genealogia poetica che tocca Ritsos e Attila József: sono tutte figure che abitano una dimensione poetica esistenziale, interrogano l’essere umano nella sua fragilità e lo riconducono a un’origine sacra, laica e cosmica.

La scrittura di Gnerre si fa preghiera vegetale e materica, memoria amorosa, testimonianza etica e grazia liturgica. Una poesia in ascolto del mondo, degli affetti, della terra, degli alberi, dei morti, delle parole non dette. Una poesia che — come insegna Cristina Campo, da cui Gnerre sembra discendere spiritualmente — si pone «nel cuore del cuore», in quella soglia tra visibile e invisibile che diventa illuminazione sacrale, visitazione di ombre: «C’è pace nella conta delle cose umane, / prima dell’àncora della luce. / Anche io la vedo: è la mappa / che porto con me dal giorno / che sono nata».

Ogni testo rivela un atto d’amore e di contemplazione, ma anche una ferita che si apre al mistero. Occorre una sosta, una pronuncia che assume il tono e la postura di chi sa di stare pronunciando qualcosa di sacro, anche nel dolore: il lutto, l’addio, l’infanzia e la pace, anche verso sé stessi: «La creta brama i lastricati, / l’arrivo dell’inverno è vicino. / Ora devo superare l’attesa della pioggia, / dichiarare pace agli altri alberi. / Custodire il pino. / Dichiarare pace a me stessa. / È così che un tronco continua / a vivere».

La parola poetica, per Gnerre, è radice e ala: nasce nel limite e vola nella prossimità del tempo («Così valico il presente, raschio il futuro. / Mi cerco sui vetri delle finestre del passato. / Sulle rose che non sono state ancora piantate»). Uno dei nuclei più potenti del libro è la figura paterna, declinata nella presenza-assenza, cui è dedicata la sezione iniziale. La morte è elaborata senza disperazione ma con una tenerezza immensa: «Anche oggi è il sei di settembre. / Papà guarda gli alberi, la strada / per ritornare a casa. / Le mani dei suoi ricordi».

Qui diventa continuazione trasformata: è fiore, è sogno, mappa da seguire. La memoria è ciò che costruisce la “civiltà degli alberi”, che protegge il senso della vita e lo riconnette a una sacralità terrestre, pienamente umana, come la piuma che trema sull’intonaco delle nostre mani.

Allo stesso modo, l’infanzia emerge come luogo originario di verità, in cui l’essere era ancora tutto intero, prima della frattura. L’evocazione del gioco della campana, dei soffioni, delle ginestre, di una nonna che “non si è mai arresa alle lontananze”, assume un potere quasi mitopoietico.

La metamorfosi, infine, è il tema segreto dell’intero libro: il fiore che sboccia, la farfalla che attende il bozzolo, la donna che rifiorisce nel lutto, la parola che diventa pane o preghiera. È il cuore stesso del titolo: Umano fiorire è anche umano rifiorire, come annota José Tolentino Mendonça nella citazione finale.

Attraverso la sospensione degli orizzonti, Gnerre elabora un dialogo interiore con figure familiari (il padre, la nonna, la madre), appunto, ma anche con alberi, fiumi, fiori, pietre e poi con il silenzio: «Quello che avevo di te / mi parla da ciò che vedo: / un tulipano, un’onda, una foglia. / Da un silenzio che cammina accanto alle orme del passato. / So che non verrà più l’inverno / e neanche la primavera. / Sono nei millimetri di una nuova stagione / che mi accarezza dal sostrato / di una pietra. / Ora l’estate cerca di trasformare / l’autunno, forma la narrazione della tua figura. / Quello che avevo di te, / la nostra albedo».

Ogni immagine evoca un confine sottile tra materia e spiritualità, dove «un pino esile attende di vedermi» o «le mani dei suoi ricordi aprono le finestre dell’ospedale». In questo mondo poetico ogni elemento è animato, portatore di segni, testimone di una grazia ancora possibile: «Oggi e per i secoli a venire / parleremo della terra / del regno minerale: / degli esseri viventi e non viventi. E quando impareremo la nuova lingua, / con le sillabe degli astri, / parleremo del Sud. / Del fango portato sulle mani. / Oggi e per i secoli a venire / impareremo che ciò che siamo qui / ci somiglierà in eterno. / Saremo per sempre noi: / carichi di tutte le cose / che abbiamo perdonato nei campi».

Eppure, Gnerre non è epigonale: la sua voce ha un’impronta riconoscibile, tutta giocata sul ritmo lento, su immagini minute che diventano rivelazione. Un tratto potente è l’intimità dolce e straziante del lutto, mai gridato, che attraversa molte poesie: «Adesso sono qui nel pieno brusio / delle radici del pioppo. / Alcune pazzie ritornano indietro: / sono orfana dell’elenco dei miei anni».

Ma accanto al lutto c’è l’infanzia, il gioco, la gratitudine. E, sopra ogni cosa, l’abbraccio come gesto originario, antropologico e cosmico: «Abbiamo inventato gli abbracci / quando non sapevamo / ancora camminare dritti».

L’elemento naturale è il fondo cosciente, che accompagna e insegna. La sua poesia sembra ereditare la visione di un mondo vivente in ogni sua particella, dove perfino «il clima ci sta modificando» e «gli animali sono felici quando ci vedono». La poesia si fa così anche discorso etico, testimonianza civile dell’umano che deve imparare di nuovo la gratitudine e la lentezza.

In liturgia della pace e liturgia del creato, il gesto della preghiera diventa collettivo e “politico”, pur restando poetico e simbolico e costruendo contro ogni disgregazione: «Pregare con le pietre / andando a ritroso / sotto le bombe», scrive, ed è impossibile non pensare al nostro tempo ferito, perricordarci che l’abbraccio precede il cammino, che l’amore precede il potere e che il perdono precede ogni giustificazione. E che, nonostante tutto, possiamo ancora «benedire la terra, le foglie che la baciano / La fuga di ogni cosa» e applicare «la misura del dono per camminare sulla terra».

 

 

[1] Guarracino V., Semi di futuro nei versi di Gnerre, in “Avvenire”, 17 settembre 2025