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Walter Benjamin e il sommerso del dolore

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I versi di Walter Benjamin (1892-1940), filosofo e saggista tra i più importanti del secolo scorso, decisivo per quel L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sono un’emersione. Trovarli, tra le sue carte, è un tentativo di salvazione dal nulla.

All’età di ventuno anni, nella primavera del 1913, Walter Benjamin conobbe Christoph Heinle a Friburgo, due anni più giovane. I due divennero amici e andarono poi a Berlino all’Università.

Cristoph Heinle, poeta mai pubblicato durante la sua esistenza, si toglie la vita, uccidendosi con la fidanzata l’8 agosto 1914, all’inizio dello scoppio della prima guerra mondiale. Così come accadrà anche a Benjamin che, tra il 26 e il 27 settembre 1940, al confine franco-spagnolo, decise di chiudere la sua esistenza.

Ma a lungo questi testi conobbero la dispersione. Forse una distanza dell’autore stesso o forse una sequenza che doveva conoscere la polvere per risplendere.

La sequenza dei sonetti, dedicati esplicitamente all’amico, sono espressioni di un lutto duro, ma di una frequentazione felice, non priva di attriti, come i rapporti veri. Nascono da un lutto e finiscono per unire esistenza e gemma letteraria.

Quasi che la fine di un’esistenza possa ravvivarsi, sottolinearsi, rinascere in una pagina. Sotto l’influenza del lirismo Stefan George, Walter Benjamin offre struggimento e tensione, grido e fuoco di effigie.

Il dolore e la morte non vengono censurati, anzi dalle loro strettoie vengono riformulati e ampliati. È la messa in discussione dell’arte, che diviene autentica quando riformula se stessa, quando conosce l’ardente colloquio con la solitudine della forma e della figura, quando sperimenta  il colpo del pensiero che, invano, insegue il suo sogno sperduto e vinto: «mentre supplici ricordi / toccano il suo sogno/ che mai li placa con conforto o benedizione.».

L’abbandono del suo amico diviene abbandono di solitudine estesa, verbale di sogno, che sposa la misura dei versi e il rigido schema della composizione. Il limite umano incontra il limite della creatura poetica.

Ciò che sfugge allo schema e al limite, si impone nella visione  e nel passaggio, quasi holderliniano, tra estrema astrattezza e concretezza chiara: «Nell’ultimo giorno il dio per noi accenderà/ nuova dorata discussione in cui le cose/ su argentee ali di bisbigliante attrezzo/ s’incontrano come il cambio di fedeli sentinelle».

L’incontro con la realtà delle cose si porrà nell’ultimo giorno, come materia di sogno e espressione libera.

Laddove la lingua assurge a dorata discussione, Benjamin compie un salto, propone indefinitezze, vive isolamenti e deviazioni. La parola risulta isolata, enfatica e tende a rendere giustizia all’istante delle cose, invano afferrate, nel flusso degli eventi: «E dalla copia delle loro lacrime/ parlavano/ le cose a cui mancava ancora il nome/ al modo stesso delle foglie nei giardini».

Trovare il nome alle cose, alla loro sopravvivenza, è la specificità del poeta: «La città della Marca e le marche sono impallidite/ il nevischio non ti dava pace tu vivevi/ nascosto nello spiriti e tremavi nella voce/ come cima d’abete aggredita dal gelo // l’Havel che sommuovevi nella fuga/ contemplò il tuo riflesso nel fulgore/ di alti gradini principeschi lieve carico/ una scarpa avanzando deponesti nel cadere».

Abbandonando l’alone mitico, egli si rivolge alla figura lontana, non soltanto con l’evocazione, ma attraverso lo schianto della memoria e dell’affermazione, il pianto e la testimonianza.

Sopravvive a sé, contro l’oblio e la caducità, la memoria viva, come a “secolarizzare l’idea di immortalità”, come scrive Rolf Tiedemann.

È qualcosa di non ancora esistente che sta per formarsi, scolpirsi in uno spostamento: «Questo è il mio sogno acquista forma/ la realtà futura».

L’epitaffio per il suo amico acquista nello svolgersi del testo un flusso incessante, violento, disperato. Si accende di spazi cromatici densi e versatili di colore rosso vivo, preponderante come gesto vitale e solco lirico.

Ma è anche il gesto del languore esistenziale e intellettuale, la prospettiva che il linguaggio dell’anima possa risuonare nella luminosità dell’evento e nel suo abbandono.

L’amore di Benjamin si apre, anche, alla promessa di un amore conquistato, di una donna-solco, che riallaccia l’unione fedeltà infinita e vanità.

L’amante conosce, con il suo breve incedere, i passi dell’eterno, per un soffio, per un alto docile, per il segreto di un enigma: «allora tacevano le fronde e il vino nel calice cantava/
discorre ancora sussurrando il mormorio del fiume/ presso l’amico veglia amicizia che non indaga quali/ sentimenti più lievemente nell’amato cambiano/ perché dal labbro aperto essa soffia via
la parola quella che di notte dimora dagli amanti».

O ancora: «E irradiava anche me dal cruccio fosco e buio/ ma la luna degli amanti il nome dei diletti/ mai la luna dorata voleva tuttavia farsi piena/ Se in ore innumerevoli la sua luce più mite/ ha bagnato il mio viso tuttavia fra breve/ Jula il tuo irradierà appieno sul mio».

Il risveglio dell’anima solitaria scopre la sua veridicità nella luce sospesa del paesaggio notturno, convogliata nel volto amato, che, in uno sfioramento di terre, lambisce il volto.

E le cose si nascondono nei loro versanti, uniche sgorgano, nei loro impeti, nelle loro fragilità.