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Carlo Goldoni e il teatro del mondo

“Niente mi appassiona quanto l’analisi del cuore umano”. Potremmo usare questa espressione di Carlo Goldoni (1707-1793), come epigrafe alla sua opera, composita e varia, tesa ad affermare la coerenza del mestiere teatrale nell’ambito della società veneziana in primis e europea poi. Nato in tempo di carnevale in una città-mondo e anche in una città-meraviglia (Venezia),  in cui tale stagione rappresenta una sorta di dimensione distintiva della città, votata interamente al teatro, agli spettacoli e alla piazza, con la bottega del caffè, che rivela il decadimento senza reticenze di una nazione. Scrive Carmelo Alberti: “Goldoni è convinto che l’arte della commedia proceda dalla capacità di osservare lo stato di natura e abbia il compito di restituire l’essenza del mondo, in relazione alle attese degli spettatori e alle capacità dei commedianti; essa vanifica quando si va in cerca delle scorciatoie insite nei facili applausi e nelle blandizie delle cattive consuetudini”.  La sua stessa vita, così come egli ce la racconta e così come le più recenti biografie stanno dimostrando, è la vita di un personaggio irrequieto, in continuo movimento e non veneto centrica ma cosmopolitica.

Diventa scrittore a quarant’anni come “avventuriero onorato”. Ma è necessario però liberarsi di una visione frivola e scettica di un autore principe della nostra commedia, come scrive Walter Binni: “ Egli accetta il limite della realtà, con fiducia e letizia, sente la ricchezza inesauribile della realtà e la ama; soprattutto la realtà umana, la casa, la città degli uomini, le loro relazioni socievoli, il saldo terreno su cui si svolge l’avventura ricca ed avvincente della vita”. Lontano dal titanismo alfieriano, avverte profondamente i valori fondamentali e i conflitti tra classi della civiltà illuministica.  La vita è interessante nel suo accadere qui e ora, nell’accesso al libro del mondo in cui approdare, riformando la scena, in nome di una commedia d’autore dove al genio anarchico del guitto subentra la sacralità del testo poetico, spesso ritagliato sulle abilità degli attori. Nel ‘continente’ goldoniano i borghesi assumono un ruolo centrale, giocato sulle buone qualità, la gaietè, l’onore e la intraprendenza economica. I nobili per contrario sono privi di questo senso, chiusi nella loro esistenza di parassiti sociali, nelle loro manie e nei loro debiti irrisolti, con al seguito i servi e loro precipua scaltrezza, come avviene nelle grandi commedie degli ultimi anni da I rusteghi, a Sior Todero Brontolon fino alla Trilogia della villeggiatura, la positività degli eroi borghesi lascia spazio al mondo popolare e plebeo che, con il senso corale e la freschezza, recano aura primigenia alla scena. E poi l’amore.

Componente decisiva ed essenziale del mondo, obbedisce al primato della dimensione economica e alle esigenze di “reputazione” e di “onore”. Nel settembre del 1759 a Bologna, in ritorno da Roma, scrive “Gli innamorati”, tesi a rappresentare <<la pazza gelosia, che nella nostra Italia principalmente è flagello de’cuori/ amanti>>. Qui l’autore si discosta dagli schemi della commedia dell’Arte, accentuando tale tematica in un rapporto di cautela, di interesse tra personaggi e dove ogni fremito è subordinato alle regole e alle esigenze familiari, in una realtà che contiene un labirinto, dove la casa in cui tendono a rinchiudersi in personaggi, da Maddalena a Bartolommeo fino a Fulgenzio e Eugenia, sorta di Mirandolina, corrisponde all’universo della città, delle sue innumerevoli varianti e facce. Goldoni sembra guardare non soltanto con simpatia e ironia alla folla vitale degli uomini, con le loro caratteristiche piacevoli o ridicole,  ma soprattutto alle donne, per la loro vitalità saggia e allo stesso tempo capricciosa, per la loro fantasia estrema e irrequieta, e delle volte anche doppia e astuta. Non esiste però una componente marcatamente sensuale, anzi gli amori dei personaggi si limitano a esibire una identità senza particolare carica erotica, proprio perché piegati  all’orizzonte della baruffa, dell’occasione e del pretesto e dove l’ ” illuminismo popolare” si insinua anche nella vita dei pescatori di Chioggia, luogo dell’anima e della nostalgia giovanile, paradiso perduto e irrecuperabile. Nella vasta gamma di scene e di situazioni comiche, di smanie e di “vapori” di Villeggiatura, l’animo si arresta dinanzi al drammatico, non lo approfondisce. Ma dietro il sipario del brio e della bonomia c’è un continuo interrogarsi sul mondo, una segreta inquietudine, un malessere che sfiora la sostanziale solitudine dei personaggi, immersi in rapporti esteriori e ostili. Ma dalla percezione del vuoto e del nulla non può nascere la tensione all’universalità del tutto: “ Tra le pieghe delle aggressive schermaglie che impegnano i personaggi goldoniani, qualcuno viene improvvisamente a dar voce a sottili e insoddisfatte aspirazioni verso una felicità assoluta, verso qualcosa di intenso e totale che non può trovare spazio in quell’universo” (Giulio Ferroni). È una tensione irriducibile, un rapido sguardo d’abisso mitigato dal lieto fine. Negli ultimi anni di vita, a Parigi, alla ricerca di quella pensione reale che gli sarà donata solo dopo la morte, forse il suo pensiero sarà ritornato indietro di trent’anni alla vigilia di quella partenza dalla sua città-mondo, in quelle ultime sere di carnevale, un pensiero senza rimpianti se non di un ritorno impossibile nella terra dove il carnevale si spegne senza grandi luci, in un bagliore rapido.

 

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