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Adonis e i passi dello splendore

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I Canti di Mihyar il damasceno[1]di Adonis (1930), il maggior poeta vivente in lingua araba, scritti tra il 1960 e 1961, pubblicati ora in Italia nella nuova veste grafica della collana “Lo Specchio” Mondadori, rivitalizzano il mito attraverso la potenza del segno e la sua cifra, la coltre umana e il suo splendido spettacolo, depositato nell’essere.

Nella Postfazione Khalida Said, soffermandosi sull’identità mobile nel suo gesto poetico, ossia in continua ricerca e in divenire, così scrive:

Il personaggio mitico di Mihyar riassume in sé alcuni elementi: la crisi del poeta come individuo che vive nel xx secolo, su un altro livello l’esperienza della trasformazione e della mobilità nella società araba e la crisi dell’uomo che si trova di fronte a temi quali la vita, la morte e l’amore.

Così Adonis trasferisce la sua esperienza personale su un piano universale, nel momento in cui questi diversi livelli della crisi umana si incrociano nel personaggio di Mihyar, che ha una dimensione mitica, arricchita anche con echi dell’antica mitologia che tracciano la storia dell’ansia umana. […]Mihyar è quindi principalmente un osservatore: sta su una linea in cui si intersecano valori e mondi, osserva il movimento complessivo e rivela i misteri. Per questo a dominare ne I canti di Mihyar il damasceno è un clima evolutivo: c’è sempre qualcosa sul punto di formarsi e scomparire.[2]

La salmodia di Adonis accentra la fragranza dei continenti, dipingendo il rovescio del giorno, aspettando i passi della notte, vivendo dove le pietre si fanno lago e ombra di città. In questo si attesta tutta la sua dimensione evolutiva che transita. Nel transito, negli estremi che si incontrano, nella vita che si riempie attraverso le parole smarrite, cammina sull’abisso e ha la statura del vento.

Ma qui non siamo di fronte alla rivelazione di un doppio, tutt’altro. Mihyar è la voce viscerale e lirica di Adonis, ciò che gli permette di sollevare la cortina del mondo, di guardarlo come lancia pagana, invadendo la terra delle sillabe e indossando la nudità delle pietre.

Tale leggerezza, o meglio levità, consente al suo personaggio di farsi persona, unirsi all’abbraccio delle radici e al giardino di fuoco.

Il regno di Mihyar è il vento e il mistero, ossia quella caratteristica per cui la parola si posa e nasce, permettendo la conoscenza e dove nel canto scritto sui volti visita la sua erranza e il suo esilio: «Perse il filo delle cose / e la stella della sua percezione si spense / non vacillò / e quando i suoi passi si fecero pietra / e la noia incise le sue guance / raccolse adagio le sue membra sparse / le raccolse per la vita / e si disperse» (Un’altra voce).

Le membra sparse coincidono con la nascita degli occhi. Dentro il mito, Adonis compie il suo itinerario di lingua e origine, e in questa genesi ottica entrano nella sua dimensione spaziale, Sisifo («Ho giurato di restare con Sisifo / di sottomettermi alla febbre, alle scintille / di cercare nelle orbite cieche / l’ultima penna / che scrive per l’erba e l’autunno / il poema della polvere»), Noè, Orfeo («Innamorato, rotolo come pietra nelle tenebre / degli inferi, ma io illumino»), Ulisse («Cerco Ulisse / forse innalzerà per me i suoi giorni quale ascensione / forse mi parlerà, mi dirà ciò che le onde ignorano…»), la Fenice, Icaro, al-Khidr, Bashshar e al-Hallaj.

Essi bruciano nella scorza di vita che il mito dispone, è la sponda ottica della poesia a farsi assetata di fuoco e voce: «Scende tra remi e rocce / s’incontra con gli smarriti / nelle giare delle sirene / nei bisbigli delle conchiglie. / Annuncia la resurrezione delle radici, / la resurrezione delle nozze, dei porti, dei cantori / annuncia la resurrezione dei mari».

Il simbolo è il segno presente di un canto in cui abita la profondità della vita, l’assenza, il linguaggio interiore della nascita e la morte, il testamento tra le rovine e il verso al vento, il richiamo e l’eco, quando «il mattino chiude le porte ai suoi occhi / e si spegne / volge il lume verso una montagna / che per disperazione aveva smarrito / e vi si rifugia».

Il poeta, estrapolando la parola dal suo contesto pratico quotidiano per renderla punto di incontro, di illuminazione del suo pensiero, crea un conflitto tra la sua materia prima, la parola, e la sua natura artistica. Questa trasformazione e questo conflitto sono ciò che intendiamo con l’espressione “linguaggio” del poeta. Tale linguaggio è la condizione particolare  del poeta, la sua personale avventura nella ricerca della verità. Per questo ha le caratteristiche del sogno e dell’esperienza dove decade ogni produzione ricalcata sul linguaggio di altri poeti. La verità poetica, in fondo, è una verità interiore anche se ha le caratteristiche di trasmettere e di ricevere e aspira ad essere verità oggettiva.[3]

L’erranza è il suo rifugio primigenio. Il cielo ha levato un tetto di pioggia, proteso per far abbassare il suo volto. Danza nell’abisso oltre le cose logorate, sprofonda per ravvivare i misteri, cominciando il suo cielo dove finisce il cielo.

Il cuore del suo viso è il fuoco che legge la polvere, come una nube che passa sui mari. Dentro il suo calamo dorme la patria muta, e la morte che aderisce ai suoi occhi, dormendo all’inizio di ogni finitudine infinita.

Nella sfumatura mitica, Adonis erige il suo tempio di splendore e scintille. È una conoscenza che crea il panno profondo di ogni profezia e lavacro, che affondano nei millenni diluviati, i traghettamenti e il giorno gemello:

Ha riconosciuto gli altri / ha lanciato le sue pietre su di loro si è voltato / portando il fulgore del giorno / e gli anni che corrono nella loro virginità primordiale. / Il suo volto sospeso a confini stranieri / si china su di essi e li illumina. / Dove non incontra che se stesso viene / dove non intravede che gli altri si volta / portando il fulgore del giorno / cancellando la pagina di un cielo vicino (Gli altri).

Sentire addosso la contraddizione e l’ossimoro del tempo, la crisi e la difficile risalita, il peso e l’erranza ebbra, così come l’esilio e il miraggio delle terre nomadi, significa indicare il fondo della propria finitezza, che saggia la scorza delle cadute.

Provare ad ingannare la morte con l’amore, il vento, il pianto, la racchiusa caligine delle parole, oltre ogni reame temporale e poi, provarsi a vivere nelle radici (e nel radicamento), come ultima scarcerazione di passo.

La ferita di Adonis è la sua gloria terminale di passaggio, la partenza della colomba che è pace e soffio di spirito, la città disegnata e l’isola. La ferita del divenire apre ora la sua narrazione di polvere e terra vergine:

1 Le foglie che dormono sotto il vento / sono nave per la ferita / il tempo fugace è la gloria della ferita / e gli alberi che si allungano tra le nostre ciglia / sono lago per la ferita. / La ferita è nei ponti, / quando la tomba si allunga / quando la pazienza si prolunga / tra le rive del nostro amore e della morte, / e la ferita / è segno, la ferita è nel passaggio. 2 A una lingua dai suoni soffocati / dono la voce della ferita / alla pietra proveniente di lontano / al mondo arido, all’aridità / al tempo portato sulla barella del ghiaccio / accendo il fuoco della ferita / e quando la storia brucerà nelle mie vesti / e le unghie azzurre spunteranno nel mio libro / e quando griderò al giorno: / chi sei, chi ti ha gettato nei miei quaderni / nella mia terra vergine? / Scorgerò nei miei quaderni, nella mia terra vergine / occhi di polvere / sentirò chi dice: “Sono la ferita del divenire / che cresce nella tua piccola storia”.

 

Le ferite sono la pagina e la lingua dispersa, il viaggio infinito, l’antica caduta come un arcipelago, il vento e le palme come segni che chiedono segno. Adonis chiede porto, un vascello, i resti di una città nel paese dei fanciulli e del pianto, per far discendere il suo canto di lancia che trafigge gli alberi, le pietre e il cielo, morbido come l’acqua, verso un dio, a cui chiede di sorgere e di far inchinare la terra:

 

3 Ti ho chiamata nube / o ferita, colomba della partenza / ti ho chiamata penna e libro / ed eccomi iniziare il dialogo / tra me e la lingua dispersa / nelle isole dei viaggi / nell’arcipelago dell’antica caduta. / Eccomi insegnare il dialogo al vento e alle palme / o ferita, o colomba della partenza.

4 Se nella patria dei sogni e degli specchi avessi avuto / dei porti, se avessi avuto un vascello, / se avessi avuto i resti / di una città, se avessi avuto una città / nel paese dei fanciulli e del pianto, / avrei fuso tutto ciò per la ferita / in un canto che come lancia trafigge gli alberi, le pietre e il cielo / morbido come l’acqua / caparbio e stravolto come la conquista.

 

Negli occhi migranti e stendardi getta la sua vocalità dispersa («”Dio com’è bello smarrirsi dive mi porta il mio volto / smarrirsi ricolmo di fuoco / o romba, mia fine al principio di primavera»).

Ma è la sua mite dimora sulla pietra a rivelare la sua poesia perduta, a chiedere alla pioggia di scendere: sui deserti, sul mondo parato di sogno e nostalgia.

Il mondo è disegnato come una ferita che non ha lasciato né isola, né vela. Il suo regno antico e infinito ha fatto sentire l’io sul balcone del tempo, per vivere il giardino delle mele e del cielo, perduti tra nubi e scintille, raccolto in un libro che insegna i misteri e la caduta, come un’orma incerta che conosce la lingua del peccato e l’estremo limite che dispiega le stelle:

 

5 Scendi pioggia sui nostri deserti / o mondo parato di sogno e nostalgia / scendi pioggia, ma scuotici noi palme della ferita / e spezza per noi due rami / d’alberi che amano il silenzio della ferita / ciglia e mani ricurve. / O mondo che cadi sulla mia fronte / disegnato come la ferita / non avvicinarti, più vicina di te e la ferita / e quell’incanto che i tuoi occhi / hanno gettato sugli ultimi regni / la ferita l’ha sorpassato / è passata senza lasciargli una vela / tentatrice, senza lasciargli un’isola (La ferita).

 

I suoi lineamenti coincidono nella visione aurorale, avanzano in un abisso colmo per farsi canto, gioia di oracolo e araldo di gioia sulle ciglia di un dio che non muore, per credere ancora, per aprire una porta sulla terra oltre il rifiuto delle parole smarrite e della gioia malata, per trovare rimedio «nelle nuvole che si incrociano e si susseguono / nell’oceano e nelle sue onde innamorate, / nelle montagne e nelle loro foreste, nelle rocce / creando per le notti gravide / una patria di cenere di radici / dai campi dei canti, dai tuoni e dai fulmini / bruciano la mummia dei tempi»: «I tuoi occhi non mi hanno visto / vergine come l’acqua dello sperma creatore / non mi hanno visto venire da lì / nel corteo delle offerte / nei miei passi l’erba e la folgore. / Domani, domani nel fuoco e in primavera / saprai che sono colui che accoglie le sementi / domani, domani i tuoi occhi crederanno in me» (I tuoi occhi non mi hanno visto).

Khalida Said, a proposito di nascita e morte in Adonis, scrive ancora:

In questi due movimenti egli patisce la coscienza dell’attimo presente, inafferrabile e mascherato, mercuriale. Abbraccia però le contraddizioni, si muove sempre tra generazione e polverizzazione, continuando un’operazione di contrasto e ricomposizione che unisce gli inizi e le fini, votato al sogno dell’uomo, fin dall’antichità, di afferrare gli estremi. Da questo deriva la contemporaneità con gli antichi dei e con l’uomo moderno al tempo stesso. Di conseguenza, è un clima di esplorazione profonda della realtà nel suo manifestarsi dentro il gioco dell’effimero e dell’essenziale. […] Il movimento, la nascita, la morte, la ricerca della verità: tutti hanno in comune il discorso del rifiuto, poiché ogni nascita è rinnovamento e ogni rinnovamento è distruzione, ogni ricerca della verità è il rifiuto di accettare la verità nella loro attuale accezione. Questo eterno viaggio tra forma ed effimero, questo osservare il divenire è un rifiuto del mondo nella sua forma e nei suoi valori attuali e consolidati.[4]

La fondazione mitica, dunque, è una stretta di rifiuto e nascita, laddove la sua terra promana ancora la sua magia, inganna l’aria, ferisce il volto dell’acqua, uscendo da una bottiglia in mare.

È l’esito di una storia sconfitta, stramazzata e inciampata sulle labbra spezzate sotto le palpebre, svegliata dagli spettri. Il canto è l’eco di un popolo, lo specchio che spegne ceri bianchi, come se non ci apparisse alcuna riva.

Adonis avverte questo vento che non arretra, sente le radici nei passi, in un mondo ricolmo di nostalgia e illuminato da un desiderio rarefatto e avvinto.

Egli percepisce barriere, limiti, vuoto e solitudine che abita parole vagabonde, distanza ignorata, ombra, nebbia e sconfitta («Mi dirigo verso il lontano e il lontano rimane. Così non arrivo ma illumino. Sono lontano e il lontano è la mia patria. Coloro che minano la crosta del mondo, pieni come la brace, coloro che confinano con l’orizzonte, che stanno all’ombra delle farfalle – a loro ho dato i nomi»), il silenzio che muore in lontananza, il grido inesorabile delle frontiere, gli specchi delle pietre: «Quante volte hai detto: ho un secondo paese / le tue mani si sono riempite di lacrime / di lampi dai confini che verranno. / I tuoi occhi sapevano che la terra ovunque piangano o si rallegrino i tuoi passi / qui, come tu la cantavi, o là / conosceva ogni passante salvo te? / Che è unica / dalle secche viscere e mammelle / e che ignora il rito del rifiuto? / I tuoi occhi sono certi / che sei tu la terra?».

Lo straniamento di Mihyar conduce la sua mappa altera e lesa di profezia ed attesa, celebrando il dedalo veggente della sua vista che si trascina nel sacrificio: «io e Dio e i detriti del giorno».

La sua tunica è poema per il mondo straniero «per il mondo che viene con la nostalgia / portando nelle ciglia il tuo cielo»: «Viaggerò in un’onda, in un’ala / visiterò le epoche che ci hanno lasciato / un informe settimo cielo / visiterò le labbra / gli occhi pieni di ghiaccio, la lama lucente / negli inferi divini. / Sparirò, cinterò al mio petto / lo legherò ai venti / e lontano lascerò il mio passo a un crocevia, / in un dedalo…» (Viaggio).

Il suo viaggio è la sua preghiera: sussurrata a un Dio che ama la sofferenza («Ma le tombe che sbadigliano / nelle mie parole / hanno abbracciato i miei canti / con un dio che sposta le pietre da noi / ama la sua sofferenza / e benedice persino l’inferno. / Recita con me la mia preghiera / e restituisce l’innocenza al volto della vita»), lasciata come il volto ramingo sulle lanterne o come una verde folgore mendicante ed arata, che si dispone sulle soglie dell’anima esiliata:

O verde folgore / mia sposa nel sole e nella follia / la roccia è crollata sulle palpebre / cambia allora la mappa delle cose. / Sono giunto a te da una terra senza cielo / colmo di Dio e d’abisso / alato di vento e di aquile. / Irrompo nella sabbia sulle sementi / e mi inchino alla nube che viene. / Cambia allora la mappa delle cose / o mia immagine nel sole e nella follia / o verde folgore (La folgore).

Il cuore rimane in quella ferita, penetrandola, come lingua che attracca senza un saluto al porto delle parole, adornate di sabbia. È la sua terra ebbra («le sue spalle / sono due prìncipi di perle e un crimine»), composta di lacrime inchinate, bambini venduti, palpebre incise, volti lontani e il suolo, prima di Damasco, come una città fuggita che rievoca i giorni, li annoda e li sgrana:

Se penetrassi la ferita fino al crimine / se camuffassi le bandiere e la follia / avrei il cappello che rende invisibili / e nella vittoria come nella sconfitta / invaderei il sogno sulle palpebre / sarei sulla terra e non ci sarei. / Ma ho legato alle cose il mio volto, le mie profondità e Dio / mi sono accontentato di vivere senza amuleto / di dipingere la vita / con la morte, il miraggio e le cose. / Mi sono accontentato di vivete con le cose.

La sua città fuggita nasce nel grembo dell’incanto e della creazione. Ora però è una stanza allontanata di pietre, pozze di lacrime e spoglie di pioggia, oltre le rive naufraghe del rifiuto spezzato come perla. Lo smarrimento è il viso dell’attesa che guiderà i nostri passi nello splendore della fine dell’esodo.

Il tempo stretto diviene domanda di sabbia che lascia le ciglia, su cui è passato il volto delle città, come sementi frantumate nei venti che illuminano l’inizio dell’estremità del mondo:

[…] Una spiga / che piange una tortora / morta oltre la neve e il freddo / morta senza rivelare il suo messaggio / senza aver scritto a nessuno di me. / L’ho interrogata e ho visto il suo cadavere / steso alla fine del tempo / ho gridato: “O silenzio del ghiaccio, io / sono la patria del suo esilio / io sono l’esiliato, la sua tomba è la mia patria”. / La nostra città è fuggita / ho visto i miei piedi trasformarsi / in fiume traboccante sangue / in barche che si allontanano e prendono il largo / ho visto le mie rive, seducente naufragio / le mie onde, vento e pellicani. / La nostra città è fuggita / e il rifiuto è una perla spezzata / i suoi frammenti giacciono sulle mie navi / il rifiuto è un taglialegna che vive / sul mio volto, mi raccoglie e mi accende / il rifiuto è una dimensione che mi disorienta / allora vedo il sangue e oltre il mio sangue vedo / la mia morte che mi parla e mi segue. / La nostra città è fuggita / ho visto come il mio sudario mi illumina / ho visto – ah, se la morte mi concedesse più tempo.

 

[1] Adonis, I Canti di Mihyar il damasceno, Mondadori, Milano 2017.

[2] Said K., Identità mobile, in Adonis, I Canti di Mihyar il damasceno, cit., pp. 211-212.

[3] Id., cit., p. 215.

[4] Said K., cit., p. 213.

Adonis, I Canti di Mihyar il damasceno, Mondadori, Milano 2017, pp. 214, Euro 19.

 

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