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Andrea Zanzotto: dai detriti al desiderio

La vitalità della poesia fragile di Andrea Zanzotto sta nella presenza dell’elemento naturale, come condizione di una imprescindibile tensione, mossa dentro un relitto di scontro e frutto del dominio della tecnologia sull’umano.

La sostanza del suo atto poetico non è intrisa di uno strutturalismo ludico, ma si apre alla vitalità classica, vissuta in un gesto di modernità ampio,  in un cammino consapevole.

La vita è sostanza eclettica, detrito che conduce a bellezza e verità, conservazione di forme e pittura che balbetta, quasi nella rottura delle frasi e nella apparente distruzione del linguaggio.

Ma entrando nella sua opera, arcana e indivisibile, ci si accorge del suo fare poetico, lontano sì da certe panie novecentesche, ma che esprime appieno una tradizione di sguardo, una dinamica dell’oltre sempre accesa.

Già dall’inizio di Dietro il paesaggio (1951) fino a Vocativo (1957) dove meglio si avverte la possibilità che una visione delle cose faccia intuire l’orma del creatore, passando da Ecloghe (1962), il livello di rapporto tra lingua e realtà, e istanza letteraria e passaggio inventivo si fissa nella differenziazione dei luoghi (Nell’ombra dell’autunno/ il chiuso bosco indora) e in un dire sottratto al tempo, in cui l’arte del linguaggio pone sull’assenza un’autenticità poetica pre-sente.

L’io si rapporta alle fratture del reale, perseguendo passaggi vicini all’inconscio, alla saturazione linguistica, al suono come esperienza, alla langue come storia in fieri (“Io- in tremiti continui, -io- disperso/ e presente”).

Dietro il paesaggio si situa una non atmosfera visibile, l’oggetto è rarefatto nella sua attesa cosciente, nella rottura tra afasia e verbalizzazione, e in questo cosciente denudarsi del vissuto, il cosciente e l’incosciente si muovono nella rete delle impressioni, o meglio delle sovra-impressioni (Anche tu mio brevissimo nitore/ di cellule mentali, tronco alone/ di gridi e di pensieri/ imprevisti e eterni. / Ed esanime il palpito dei frutti / e delle selve e della seta e dei / rivelati capelli di Diana, / del suo felice e dolcissimo sesso).

Il linguaggio raggiunge il punto limite quando copre l’orizzonte dell’esperienza, diventando oggetto del dire, ricerca di significati all’interno dei segni.

I sommovimenti delle cose si salvano nel loro processo di conoscenza, nella funzione offerta dall’ironia che interrompe e monitora il rapporto tra significato e significante: la formulazione del balbettio, del petèl, del dormiente, il referto popolare offre sacralità alla parola poetica, indaga il discorso nei suoi recessi, afferma una positività del senso autentico della realtà. L’appartenenza alla madre come simbolo, come origine, come fattore costitutivo della natura umana.

Le sue Pasque vivono di questa attesa trepidante, di questa germinazione dell’evento primaverile sulle raffigurazioni carnali, in un ambito in cui la parola si fa suono di voci indistinte, di autenticazione dei codici, di lingua rimossa e di impronta furtiva.

La storia umana diviene elementare trasformazione e ‘cosificazione’ di elementi, di organismi (Fosfeni) protesi verso un centro strategico su cui poggiare l’impianto poetico.

Il dialetto, usato dal poeta, offre lo spunto a una memoria dell’io, che nel “progresso scorsoio”, diventa depositario  di unità di espressione, in una visione oltre la lingua. Poesia di panorama, poesia di provincia perlustrata, nel suo luogo topico di Pieve di Soligo (“Voci si odono rare nel gelo/il solito vento che sa di steppa/a marzo infierisce/incristallisce talvolta e come/sempre ferisce…”),  dove la componente magica del linguaggio si forza di razionale e irrazionale, le parole sembrano quasi “decapitate”, fratturate, protese verso l’eco della vertigine, della spazialità annunciata, di un poema freudiano-lacaniano, in cui il bisogno di identità, nel processo di materia, diviene informazione dell’infinitamente piccolo, del microcosmo e del macrocosmo delle cose, dissolto in tracce, “parola sotto la parola” come scrisse Gian Luigi Beccaria.

Avverte anch’egli un ungarettiano sentimento del tempo (Conglomerati), appartato e solitario, in un contesto di tinte grigie, di sconforto senza speranza, e il verso diventa massa rocciosa, denso spazio pietroso: i suoi vocativi tendono alle superbe o umili creature del mondo, evocazioni di mondi e universi in uno spazio. Scrive Claudio Magris:” La poesia di Zanzotto, modernissima e arcaica, scende alle radici originarie del parlabile, là dove il soggetto individuale non è ancora scisso dall’indifferenziata totalità del mondo; è un viaggio nel regno dei morti, alla ricerca di quel ramo d’oro che è il segreto della morte, perché per far parlare l’indicibile, l’afasia, occorre trapassare tutte le figure”.

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