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Anna Achmatova e il fondo del bagliore

Anna Andrejevna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (1889-1966), nata in un suburbio di Odessa, da padre ingegnere navale e madre nobile, abita le terre russe come un bagliore di eco, come gloriosa luce fertile.

Pietroburgo, Pavlovsk e Carskoe Selo sono i paesaggi di un mito che si impossessa, in modo elegiaco, di una pagina sensibile che reinventa i luoghi.

Moglie di Nikolaj Gumilev, poeta acmeista tre anni più anziano di lei, dal quale ebbe il figlio Lev e con il quale respirò l’abisso sospeso di forme di Parigi con i suoi artisti (Modigliani) e le sue vie, dovette sopportare non solo la fucilazione del marito, ma anche la separazione affettiva dei genitori, andando ad abitare con la madre sulle rive del Mar nero a Evpatoriija.

Iniziò a scrivere presto, Sera (1912), Rosario (1914), Lo stormo bianco (1917), rivelando sin da subito una novità espressiva e il culmine e il vertice di una mescolanza di opposti, di una ridda ampia di simboli e di anti-convenzioni.

Reca, quindi, un’impronta sottotraccia, solleva un’intimità essenziale, personale che si sposa a perfezione con il clima poetico e salottiero dell’epoca.

Essenzialità che se da un lato riveste il simbolo di grazia e misura, dall’altro inizia a sperimentare l’esasperazione di un fondo lungo e denso di immagini e oggettualità: «Il cuore batte rapido, più rapido … / E il tocco oltre la stoffa di una mano/ che distratta benedice. // Nei canali esigui l’acqua più non scorre, / gela. / Qui nulla potrà mai accadere, / mai nulla.» o ancora: «Che dolci, strani volti tra la folla, / nelle botteghe lucenti balocchi, / un leone col libro su un cuscino a ricami, / un leone col libro sulla colonna di marmo.// Sera senza vento, avvinta di tristezza/ sotto l’arco del cielo nuvoloso».

Percorrere l’essenzialità, farne un’insegna di pagina luminosa, significa creare una piccola biografia di minute, un’unica narrazione, un “diario dell’anima”.

Si tratta di riflettere un mondo interiore che distende latitudini vigorose, confondendo stati d’animo e esasperazioni dolci e disperate: «Sotto l’icona un liso tappetino/ dentro la fresca stanza è sceso il buio».

In una traccia allusiva, giocata su una complessità emotiva estremamente fluida, l’Achmativa insegue la sua mimica verbale, la sua recitazione di crocevia e di esplorazione.

Scrive Michele Colucci: “Con un’efficace e vitatissima metafora critica, V. Ŝklovskij   paragona la lirica dell’Achmatova giovanile a un raggio di sole penetrato iun una stanza buia: una lama di luce che illumina vividamente uno spazio esiguo. Il rilievo è più o meno condiviso da tutti i critici e, naturalmente, si riferisce a una poetica vista come circoscritta al massimo, anzi limitata quasi esclusivamente alla sentimentalità”.

Ma all’interno di questa filigrana la sentimentalità apparente e versatile, la fiumana dell’immaginazione dell’Achmatova, crearono problemi con il nuovo regime, che cercò dapprima di murarla viva, poi di colpirla nei suoi affetti ricattandola, e infine di espellerla. Infatti dopo le due raccolte Piantaggine (191) e Anno Domini MCMXXI (1922), le fu impedito di pubblicare.

Il silenzio della pagina si accompagnava a un nuovo territorio di slancio poetico e di nuova zona schiva e appartata: «Ho appreso a vivere semplice e saggia, / a guardare il cielo, a pregare Iddio/ Vivo come un orologio a cucù, / non invidio gli uccelli nei boschi. / E taccio. Taccio/ pronta ad essere te di nuovo, terra.».

Le incipienti purghe staliniane, la tragedia di un popolo (messe in luce in Requiem), il solco duro e drammatico di una clandestinità e infine l’accusa di disimpegno e di estetismo, destinava nel suo animo l’insorgere di una sofferenza fisica, di un nuovo tentativo di ricerca di conquiste e doni: «Il cuore si struggeva non sapendo nemmeno/ la causa della pena. / Come pietra tombale/ si posi l’amore sulla mia vita».

Scrive ancora Colucci: “Ma c’è da osservare che nell’Achmatova l’equazione amore=sofferenza non ha bisogno di motivazioni esterne- che pure di frequente vi sono- quali abbandoni, tradimenti, gelosie: può porsi, e si pone molto spesso in quanto tale. Analogamente, non vi è mai nei suoi versi un processo di sublimazione dei propri sentimenti; ciò che li caratterizza invece è una lucida coscienza, una visione quasi «scientifica» dell’eros, vissuto per questo, perché privo di illusioni, ancora più dolorosamente”.

Gli strati profondi della poesia nutrono un fiume che tende alla totalità, all’angustia, ripiena di memoria e rimpianto, che ha bisogno di spazio per librarsi, di una nuova condizione ariosa che tocca i limiti per farsi infinito, come quel suo incontro nel 1941 con Marina Cvetaeva.

Nel passato si insinua la sua coltre, la sua crisi, il suo abbandono. Nei flashback di una lontananza, nel dissolvimento di armonia di spazio e tempo si incontra l’aridità e l’ annebbiamento di immagini che vacillano nella coscienza: «E nel ricordo, come un involucro arabescato: / il sorriso canuto di labbra onniscienti, / le nobili pieghe di un turbante tombale, / e il melograno, nano regale». 

La sua poesia conosce, nella sua ultima fase, un apparente solco disordinato, una siepe (tradurrà anche Leopardi rinvenendo la condivisione della natura mortale e lo sguardo all’infinito) che si anima di soprassalti, di sovrapposizioni, di ragionevolezza e abbandono.

Poema senza eroe, dedicato alla memoria di coloro che avevano ascoltato per primi la sua voce luminosa e gli amici caduti nell’assedio, è la sua mappa stellata, la sua ferita febbrile accusatorio-espiatoria: «Dal 1940 come da una torre guardo tutto. Come se di nuovo dicessi addio a coloro cui da tanto tempo ho detto addio. Come se fattami il segno della croce, scendessi sotto oscure volte».

La sua ultima produzione è una lunga nota metrica, laddove il respiro si insedia su un sentimento tragico, su una introspezione di fiamma: «la fredda, pura, lieve fiamma/ della mia vittoria sul destino». Di lei è stato scritto che la morte nella sua poesia “è talmente legata alla vita che ne diviene elemento familiare, così che è difficile stabilire fra loro una frontiera. Il mondo interiore della poetessa è popolato di morti e di vivi mescolati tra loro ai quali ella si rivolge indifferentemente. Ella chiama i morti ed essi ‘consentono a venire’. Essi sono là accanto a lei: ella intende il loro cuore segreto e parla come se essi fossero in questo mondo, forse anche meglio perché essi sono diventati più prossimi, più definitivamente presenti”. La sua poesia avviene come un segreto respiro, un legame di luce tra bagliore e fenditura di inferi.


 

 

 

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