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Anna Maria Carpi: la parola e l’altro

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La nuova antologia di Anna Maria Carpi (1939), fine germanista e saggista di valore, E io che intanto parlo. Poesie 1990-2015, edita da Marcos y Marcos, restituisce la compiutezza dissodata di un mondo primario che viene continuamente riformulato e donato, come se il mondo poetico dovesse, in qualche modo, restituirsi sempre. Tale restituzione si distende, nella sua profondità, lungo tutta l’arsi poematica, come incontro e relazione, rivelando l’interezza dell’espressione e avvertendo, come annota Roberto Galaverni, «il sentimento del proprio particolare destino, l’inconciliabilità, non importa se nel bene o nel male, del proprio sentire con quello degli altri, a partire dal riconoscimento di una ferita iniziale – «la macchia dell’origine perdura» – mai risanata».

A morte Talleyrand (1993, Premio Pisa 1993, Premio Diego Valeri 1994) esplora l’anteriore origine familiare dipanata nelle relazioni tra voci umane e percorsi esiliati, e «[…] quasi alla ricerca di un senso, di una risposta impossibile», sostiene Fabio Pusterla, «la scrittura continuerà a tornare inesausta, compulsando genealogie e transumanze umane», celebrando la distanza cerimoniale tra la separatezza e l’origine, l’estremità e l’avvicinamento, come l’ampio confine dei suoi luoghi sospesi e umbratili e in cui, come afferma Anna Toscano, «i suoi dove sono postazione da cui poter osservare gli altri nel tentativo di scorgere un senso, una condivisione delle umane prassi».

La sua delimitazione spazio-temporale diventa l’avamposto scomposto e rituale di una soglia vibrata, in cui la concrezione della realtà si impone come rilucenza e lesione, itinerario e spoliazione d’essere, e laddove l’adito nella datità si scompone per rimanere indenne ed escluso:

«È alla mia fermata in piazza Sud / che non so dove vado, / che vorrei / tutt’altro luogo, / una casa altrui per esempio, / un letto, un tavolo / e la mia roba sulla sedia. / È nella mia casa di sempre il male, / è dalla mia esistenza / che non dovrei passare, / anche se amo quegli alberi all’inizio del parco / e il loro inverno e la neve. / E ancora accettabile è la porta di casa, / quella esterna, / e l’intervallo fra questa / e quella a vetri, / ma il mio nome, il nostro nome fuori / già non posso vederlo. / Adesso ho un’altra casa, in un’altra città – / da nuova era normale, / come ogni casa d’altri – / ma come una macchia sul muro / anche là è apparsa a un tratto / la mia esistenza».

L’ingresso dell’esistenza diviene, pertanto, l’avviso della lontananza e dell’attrito della sua stanza terrena verso la salvezza, «[…] si è sempre appena arrivati, / sempre in partenza, / si sta in una stanza terrena, / nell’anticamera / di ciò che sarà: appuntamenti / andirivieni per la salvezza. / Così per me è l’aldilà», nella densità quotidiana si addensa la memoria e la sua mancanza di porte chiuse, nell’abbandono disfatto di tempo e spedita sospensione.

La stanza di Anna Maria Carpi è lotta che splende e incenerisce, come ha scritto Alfonso Berardinelli, tavola atroce nell’ora della bufera («Siamo a tavola. È ora di bufera»), gioia efferata di parole che scagliano buio disciolto in una domanda elementare, in un furore basico che si annoda sull’ora, interna ed esterna, del quotidiano.

Italo Testa afferma:

«Un registro sentimentale spezzato, frequenti scatti umorali, l’impudicizia di tornare spesso su di sé, sul proprio magone, sulle magagne, le macchie di un’esistenza. Eppure la tonalità dominante non è quella del lamento, ma semmai una certa levità, che traluce in uno sguardo spesso trasognato, a volte leggermente ebbro. Questa risentita svagatezza è come presa in un moto arioso, e se a volte stempera un nocciolo duro, minerale, di sofferenza, non è tuttavia estranea a una nota ingenua, di felice resa, come se lo squilibrio dei versi fosse il tracciato verbale, l’idiografia di un’oscillazione interna, di un’ironica altalena tra malinconia e grazia. Se c’è una legge individuale di quest’opera, non andrà cercata in alcuno dei due poli, ma solo nell’intervallo tra la malinconia dell’introversione del sé e la grazia dell’abbandono all’estraneo, in una continua triangolazione tra un sé dolente, gli altri immaginati e il disordine percepito delle cose».

Tale furiosa scultura è una prominenza di riflessi segnati che anche nella luminescenza raccolgono ombre accese ed evitano ciò che è identico («e io mi vergogno / delle cose che tocco, / della mano che prende la tazza, / del mio esserci ancora»), come un fondale disarmato che rincorre un diritto, una speranza, una singola vita travagliata esposta nella luce interiore dei dipinti e degli ingressi, nelle chiusure avite delle terre e delle nebbie: «So che non posso dirlo, / che tutti riderebbero / quando mi sveglio presto / in certe albe / c’è l’eterna bellezza. / davanti agli occhi, manifesto / è quel che mi può salvare, / la compagnia della luce, / passeri, merli, / l’ora di nessuno, l’ora d’oro, / e come piaccio a me stessa piaccio a loro».

Il battito disorientato dell’io insiste sulla provvisoria presenza degli altri amati, immanenti e distanti, scoprendosi «lacerato […], preso dalle forze tempestose di due figure genitoriali in perenne conflitto, […] che estendono la loro influenza anche ben oltre la loro fisica scomparsa. […] Tutto il dramma dell’io sta, si potrebbe dire, nel territorio del “fra”, in questa terra d’esilio e  disorientamento […] che impedisce di definire serenamente un’identità, e condanna a non potersi mai abbandonare,a  non potersi mai sentire parte di qualche cosa» (Fabio Pusterla).

Scrive Roberto Galaverni:

«La figura dell’io che si disegna in questa poesia – una poesia visceralmente, pervicacemente egocentrica – oscilla continuamente attorno a questo nodo che di fatto non può essere sciolto, pena l’annullamento di un’instabile, sofferta ma in ogni caso ben riconoscibile identità. Ecco allora che le situazioni poetiche sono tutte variazioni di uno stesso incontro-scontro tra opposti: desiderio di radicamento e insofferenza per ogni possesso o fisionomia garantita, la ricerca della comunione con «gli altri» (continuamente evocati come per contrappasso: nei bar, nei metrò, negli aeroporti, nei supermercati, nelle stazioni, sui treni) ma al contempo la pretesa di una redenzione esclusiva del proprio io. C’è un fondamento drammatico inamovibile nella poesia della Carpi, rispetto a cui l’immersione nella vitalità o l’aggiramento dell’ironia non rappresentano che il tentativo di allontanarsi da un demone da cui non si può, da cui non si vuole, fuggire».

L’anagrammatica compresenza di figure scandisce il tempo della ricerca, come avviene in Compagni corpi (2004-2005). Nel trauma la poesia della Carpi compendia  la scoperta irradiata di un dialogo umbratile ed intenso che non si placa, anzi, nella sua divisione e dimidiata scomposizione cerca la composizione dell’altro, la tenerezza, il centro propulsivo di qualcosa che non muore, che non si svuota ma che, in tutto il suo drammatico taglio furente, propone il suo fondo insondabile e la sua vita.

Attraverso il nomadismo corporeo e spaziale, il suo slancio permea lo scivolo del suo approfondimento esistenziale, la cui tentazione, dice Roberto Galaverni, è attestarsi in «qualcosa d’irrisolto, di non accordato, di schematico, quasi uno slogan; qualcosa che avrebbe potuto esprimersi meglio in un’annotazione in prosa, in un aforisma, in un raccontino».

Ma nelle annotazioni, come un rovescio di medaglia, il mondo di Anna Maria Carpi, insegue la parola sotterranea che mostra l’intensa armonia del viaggio umano, dove la condivisione della lingua e della «colorata ciarla / dell’in-esperienza acquisita» divenga tremore di se stessi e ultra-limite, perchè «là dov’erano gli altri, i cari altri, / anch’io volevo stare, / anch’io su questa transiberiana – / perché, pensavo, / dove si è in tanti / qualcosa si farà contro la morte».

La condivisione del limite che ammanta un lungo percorso di volti, luoghi e modelli (una sorta di caproniana evidenza) in un addentramento di brusii e interrogazioni che tenta di rintracciare l’istante scomposto e la dismisura, in un grumo di sillabe: «Compagni corpi, / bocche che dicono / ogni momento / “abbiamo una vita sola”. / Sacrosante parole. Ancel sorride: come / lo sanno, / come lo sopportano? / E ode, / lui, il senza occhi – che venga giorno che venga notte / tundra o tajgà – la dismisura: / che la neve s’aggruma ad ogni sillaba, / e l’impossibile agrimensura».

La corporeità dell’incontro, pertanto, diventa l’acrobazia di un’ipotesi furiosa di soglie e confini ampi (Mosca, Russia, Urali, Parigi, Milano, Venezia), in cui l’ironia si dispone come l’ordine di un transito scuro e fulgente che inclina il mondo nel cuore dell’altro e nel desiderio di essere amati: «A sera a notte, la notte tutta / è festa, luce coatta,e  tutti fratelli / e tutti / così nel bene e nel male / su questo inclinato Titanic terrestre. / Tremano solo nel fondo. Nel buio degli occhi / è il guizzo, l’assillo: / essere amati. / E langue il flauto: la vera gioia sei tu, / cuore dell’altro. / Cuore dell’altro, / forse senti qualcosa, forse / hai memoria, a volte sembra / che qualcosa vorresti, / ma non dai a vederlo, / ah, non c’è tempo, / sei già passato ad altro / e perchè non lo sai».

La radunata origine delle parole-avanzi rimesta la rada sproporzione dell’essere che ricerca il fondale della propria natura («nulla mi rassicura, / e mi divora / non sapere chi sono»), lo splendore di una narrazione abrasa e lustrata, che anche attraverso l’occhio sgominato di Celan, grida («Io in verità non comprendo / cosa sia tutto questo che vedo, / sono una gazza bianca e nera, / io grido “voglio” e “non voglio” / e “bene” e “male” e “amo” e “odio” – / oppure taccio, l’occhio che pulsa / per la paura»), avverte l’opaco silenzio dei detriti della natura attraversata «da una lingua / muta e senza nome, / dal residuo del verbo creatore / di Dio, che si conserva / nell’uomo / come nome conoscente», che crea avidità di dialoghi e di occhi, come la parola-tenda che unisce l’illeggibile dimora delle appartenenze, il segno dello sguardo provvisorio e la diffusa narratività che, secondo Fabio Pusterla, «funge da contravveleno a un’eccessiva concentrazione sulla figura dell’io; si potrebbe dire che la narrazione svolge in quest’ottica poetica lo stesso ruolo del viaggio sul piano esistenziale: rompe la prigionia statica dell’io, trasporta la “parola-tenda” lungo un cammino che le impedisce di raggelarsi o di chiudersi nell’autocommiserazione, e per finire consente, sia pure per la sola durata del viaggio-narrazione, di sfiorare il miraggio della condivisione, di accostare finalmente l’altro da sè».

La lacerazione accostata dell’io rimane nel nascondimento della gioia, accetta il limite richiuso, si scontra contro l’assenza di senso, asserendo lo sgomento di una partitura minima e profonda che insegue l’esistente nella adiacente consolazione dell’altrui, nel senso di realtà delle cose, nella migrante andatura del tempo sulla via, dove rintracciare le steppe dell’eterno, come interlocuzione senza fine al suo Dio dialettico: «Ti dicono: lo sai, / la vita, il mondo / è di chi va, chi prende, / sbrigati, se ci stai su a pensare hai già perduto. / E se di mondo ce ne fosse un altro? / Ridono: che domanda! / Ragazzino, / lasciaci lavorare. / In certe sere di sgomento penso: / non sarà che siano già arrivati / anche nell’altro, / e magari da un pezzo? / E che l’antico impero / degli angeli, di Dio / come i compagni russi / abbia già convenuto / che hanno ragione loro / e gli ha già dato / di sfruttare le steppe dell’eterno?».

La bruciata tensione si risolve in un tentativo di saldatura alla fuggente dinamica dell’altro, che mai si rimuove ma diventa il luogo appartato di un amore disperso e risoluto che si protrae oltre la morte e la dispersione, cercando il fondo dove la vita si concreta nel sua ignota conoscenza e nel suo esilio, e, allo stesso tempo, svolge la sua festosa numinosità, la venuta spaziata del mare e il vento nelle case vuote, per intessere i tappeti dell’eterno, dai fili pazzi e sfrangiati: «Chi siamo dove stiamo, continente, / città, casa, a che piano, e cellulare: / uno per uno ci ritroveranno, / noi sparsi fili, la notte del raduno, / fili pazzi, sfrangiati, / e passeremo a forza per la cruna / a intessere i tappeti dell’eterno».

La celebrata assenza, il congedo che proclama partenze imminenti e irriducibili, evoca il territorio di una presenza costante che popola il suo verso quasi strappato, ma così proteso all’inesorabile adunata delle cose nel mondo, alla voluttà dei rumori e delle personali sonate, e dove, scrive ancora Galaverni, «[…] le interrogazioni radicali, l’orizzonte metafisico-teologico, il verso tante volte secco e appuntito, l’andamento a strappi del discorso, l’impasto linguistico essenziale e un po’ amarognolo, la rima ironica posta in clausola, la preminenza del pensiero, il riso, la rabbia, il sarcasmo, gli infiniti congedi degli altri e della realtà che non impediscono però di continuare a parlare, di evocare presenze»: «Di tutto il creato / il punto più bello, di tutta la festa / la luce sei tu, / nel tuo sguardo d’affetto / mi avvolgo e non ci credo / e continuo a pensare e non ho pace – / scrivevo un tempo, a mano, su un quaderno. / Come se tu continuassi / tu sei il mio eco, / tu la risposta, tu / sei il mio amico, / nemmeno l’amore ci divide. / Era questo l’amore? / E tu chi era? / Era nessuno. / E tu chi è? / Chi amasse la storia / e avesse a memoria / chi io sono / fiducia in chi sarò, / quella che io non ho, cuore da nulla».

In E tu fra i due chi sei (2007), le simbologie percettive della condizione umana si sdipanano in un doppio elevamento di radici e sradicamenti, poggiandosi sui suoni della storia, aperti alla contesa dei venti e delle fioche lontananze: «Cos’è la terra? Erba / aria folate erba / fruscio contesa / fra radicati e sradicati. / E tu fra i due chi sei? / Se com’è vero sono tre gli accenti / che i nostri orecchi intendono, / suona acuto il presente grave la storia / circonflesso l’eterno, / guardalo questo – è un tetto, / aperto ai quattro venti, / e sotto è freddo / e tutt’una contesa».

Oppure cadenzando il gesto di un’interrogazione inesausta verso l’immagine divina, come una promessa, il cui desiderio, come sostiene Fabio Pusterla, «non ammette il limite della mortalità, proprio come non accetta il limite della sola vita individuale; tanto che “gli altri” e “Dio” sono i soli due orizzonti impossibili cui tende il viaggio, orizzonti forse e senza forse irraggiungibili eppure necessari per non ricadere nell’immobilità autoreferenziale»: «Io lo so bene a che mi serve Dio. / Che sappia dove sono, / non in ogni momento, non pretendo, / nemmeno lui potrebbe, / basta quando lo cerco, / e mi assicuri: / in qualche forma ci sarai per sempre. / Io non domando quale».

Non è lo scoglio del solitario grido, «fra gli altri / fra le cose / fra astinenza o overdose», a toccare la trama gioiosa e diversa dell’io, non è il buio viaggio dell’umano nell’umano ad annullare le fermate intermedie e a solcare mete, a bastarsi nei letti bianchi come le vesti dei fantasmi, perchè «Solo un viaggio comune è senza fine».

L’ordito di Anna Maria Carpi inscena situazioni e relazioni per cogliere l’incontro, come la narrazione di una scrittura che svela la consistenza illeggibile di una tensione che non recede, dove l’ostinato coraggio della ricerca di «un nulla incoronato / e votato a sconfitta» che ne sente il peso, avverte, allo stesso tempo, la propria fisionomia in una cavità di gloria e infanzia sul destino delle linee, su una sorta di ordinato ritiro dove guardare l’approdo di un senso antico e quotidiano, in cui la vita si espone e comunica se stessa: «In altomare a volte, / sulla curva terrestre, / va un carico di luci nella notte, / una nave, che cera / l’emisfero australe – / è un senso antico, / ma forse là si è felici, / forse là non si scrive: ci si parla, / e non in poesia», o ancora, «Ma c’era già / nel pulito mattino delle stanze / nelle cose che avrebbe toccato / e in quei miei lunghi giri / giù nelle strade dove saremmo andati / e nei negozi dove saremmo entrati / a prendere da bere e da mangiare / ogni giorno. La vita».

La scrostata immobilità è un punto nodale di abbandono e pace, naufragio e demarcazione, dove segnare e guardare le carte: la porta aperta sulla stanza interna, le coperte e la rimpatriata avvertenza del sonno, dopo le parole alterate e i cinque continenti bevuti dall’oceano del mondo.

Il grado di separatezza oscilla tra una partenza-assenza e la carne in viaggio che non contiene l’io, che, rimbaudianamente, è un altro. Come la cessata permanenza di un amico, in una leggenda di grandezza, gioia e fortuna, («[…] Ora di cena, rientro dal lavoro, / brilla la megaperiferia, / immani blocchi, occhi nel cemento / per dieci, venti piani, e in ogni piano / c’è qualcuno che vive / con in un pugno il permesso di soggiorno, / extracomunitari siamo tutti, / e il tagliando è sempre più consunto. / Eppure ognuno ha una sua leggenda / di grandezza, di gioia, di fortuna. / La vita vera non importa a nessuno»), o come la contesa tra estremi sia una piana che reclama giustizia: «Dunque c’è l’aldilà: è questa piana, / tra filari di pioppi, sempre uguale. / E c’è anche Dio? / Ha sempre detto: non si può sapere. Niente contro, / ma credere è un impegno non da poco, / credere è duro, / non è un trip da poetico new age. / Certo, sarebbe bene che Dio fosse – / per far giustizia: grida / vendetta per quello che succede / ogni giorno nel mondo. / Ma che adesso mi veda e mi conduca / su questa strada / non lo pretendo. Io non l’ho mai pregato».

L’incipit di L’asso nella neve (2011) esprime la trafittura della grazia come stemmatica relazionale di solitudine e bisogno, alterità e dolore: «Il mio cuore ha l’accesso stretto / il sangue non ci passa facilmente / o rigurgita o rimane dentro, / così gli altri non sanno / che passione ho per loro / che potrei / fermare anche gli ignoti per la strada / e dirgli / tutto quello che ho dentro e non mi passa – / e sarebbe la grazia».

E in questa tensione drammatica le figure sembrano sollevarsi attraverso l’ignota immobilità oggettuale, toccano la forza di una sintesi segreta, non rinunciando mai all’interno fugace e bellissimo: «QUI SUL MIO TAVOLO: / ho la luce accesa, / una tazza tedesca di Bayreuth, / la biro e nella scatola / che ho foderato io di carta a fiori / la gomma il temperino / il rotolo di scotch la cucitrice / Rapid One, è svedese. / Guardali, uno ad uno / non pensare, non muoverti. / Solo un metro più sotto / c’è la disperazione. / Ancora un’ora, poi berrai qualcosa / poi guarderai le mail,  il telegiornale / poi qualcuno telefona».

Giorgio Linguaglossa, soffermandosi sul livello di sostituibilità assertiva della poesia di Anna Maria Carpi, così argomenta: «La sostituibilità generalizzata pare essere il regno di questa poesia. La sostituibilità come traslato simbolico del regno della libertà (impossibile) allude a quella cosa che è poi il «quotidiano» che altro non sarebbe che qualcosa d’altro, qualcosa di irriconoscibile e di impenetrabile […] In qualità di atto linguistico, la ricerca del senso (in cui questa poesia è impegnata) sposta il problema sul discorso poetico, su ciò che esso dice non dicendolo o non dice dicendolo. C’è uno spartiacque: tra ciò che sta a monte (la domanda fondamentale: la ricerca del senso) e ciò che sta a valle (il discorso poetico: l’individuazione del senso). Così, il rapporto figurale-letterale di questa poesia si presenta come un rapporto di inferenza (soppressa), un dialogo di chiarificazione tra l’autore e l’uditore; ciò spiegherebbe il tipo e l’aspetto argomentativi della infrastruttura discorsiva, l’argomentatività di un discorso poetico privo di ogni figuratività (se si intende la figuralità come quel ponte che si estende dagli atti linguistici alla simbolica)».

Sono memorie oggettuali che appartengono alla posteriorità dei detriti disastrati nelle rovine inspiegabili («MATTINE DISASTRATE, / sola in casa, / avanti e indietro scalza dal computer al frigo / per trovare una frase / nel rhum nel whisky, e non so mai quanto, / scrivo anche mail, confondo / i destinatari / e dico ciò che non dovrei mai dire / perché il mondo ha i suoi usi / e una decenza. Io non l’ho appresa), inermi nello sgomento d’amore che non muore («non mi devi parlare come a un comune umano, / amore è dire all’altro non hai fine. / O io sono immortale oppure niente»), prostrati in una lama interna senza abbraccio («Così non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro») e solcati nel frammento senza difesa di un tram «con un lungo sospiro» o di un suono remoto di stanze.

Nello struggimento radioso che si insedia nella sua «cara abitudine alla vita», scrive Maria Grazia Calandrone, «Tutte le cose hanno pietà di noi, in esse sono contenute la rassicurazione e la costanza di un bene parentale. Ma qui è Cristo che parla. […]  Gesti di puro spreco, azioni mosse dalla semplice gratitudine d’essere vivi, il nostro continuo omaggio alla vita, così spontaneo e connaturato e continuo che nemmeno ce ne rendiamo conto. Che generosità sta veramente nel sacrificio di Dio che non è soggetto al tempo? Il tempo è la sola cosa che davvero possediamo e dunque davvero doniamo. Carpi, immersa nella metafora di una sera continua, regala tempo a una scrittura nella quale protesta: «amore è dire all’altro non hai fine. O io sono immortale oppure niente». Che amore manifesta la morte di chi sa che al terzo giorno verrà rinato? Giusto lo stare in quel poco di sofferenza del corpo – ma è un dolore piatto, della carne, senza il dubbio e l’angoscia di una infinita oscurità; giusto provare l’illusione di poter morire e di avere anche io – Dio – l’ostinazione di inspirare, espirare, inspirare nonostante la morte. Eppure, questo Cristo carpiano si permette anche il lusso di criticare l’ignavia degli uomini, delle creature definitivamente commensurabili e che vogliono essere salvate».

All’interno di questa interrogazione così sprofondata e solenne, la sua poesia ricostruisce sempre la similarità dell’incarnazione del tempo oltre-tempo senza incisioni, l’ignoto corpo, l’amore sbandato e la gioia sconfinata, il segno antico e adunco, l’ultima cena di Cristo e il suo crudele amore per la bellezza: «Anna Maria Carpi scrive quasi “a cose fatte”, scrive dopo», sostiene ancora Maria Grazia Calandrone, «dopo che l’amore è tutto avvenuto, scrive da una solitudine dannata ma attraversata da lampi di inconsulta gioia, da una testarda ammirazione per quanto è vivo. Carpi è continuamente in dialogo, cerca compagni – vivi o morti – sui treni, sugli aerei e nelle pagine dei libri. In questi testi scintilla allo specchio post mortem la bottiglia preferita di Vysockij come nella poesia di Luzi lampeggia il vestito verde di una donna infelice, un incontro mancato. Da un vivo, da un morto, che importa – se l’invocazione di Celan al Dio-Nessuno secondo Carpi non è a un Dio smentito dalla storia – ché qui anche l’angelo benjaminiano della storia è ricacciato indietro, nell’istante – ma a un Dio esistente».

In Quando avrò tempo (2013), è il tempo rotto dalla luce a contenere la sua vocazione ultima, l’attesa consumata della morte nella narrazione sconosciuta e introvabile di un lido nel quale proteggersi come oleandro rosa o scroscio di acqua obbediente, dove poter avere una riva, un ormeggio in un duello di sciabole di luce («[…] ma le case scintillano, / tutte abitate, / sento gente che va fra ciarle e risa, / i cari altri. / A due passi da me e non mi vedono, / non sanno che ci sono, / che sogno e in sogno parlo con loro, / e che non c’è la morte / se non ci viene tolto di parlarci»). L’icona sghemba e strizzata dell’accumulo di scintillii deboli («E io che intanto / ingombro questa casa come un bimbo / che sparge intorno i giochi / e di far ordine non è mai il momento»), la notte presaga sul mondo-nebbia, l’irriducibilità alla fine, destinano l’anima a una sintesi residuale altissima e dolente, finendo per sentirsi una sanguinosa traccia di Dio.

L’animato porto (2015) spinge il vertice della reciprocità e il tremore della speranza, con la leggerezza «negata al tragico», che diventa sospiro inclusivo di ossimori indicibili, peso delicato di storia familiare, sconfinato e arreso verso «l’isola australe della gioia».

Nel tempo mancato e infinito della nostra latitante provvisorietà e della nostra incombenza, accorre l’amore e il destino, per aggrapparsi all’ultima tramutazione «sul cuscino fresco della speranza» e sulla retina, e nonostante lo stupro della luce che ritorna, ravvivata dall’infinita arsura di trascendenza,: «No, non essere il fumo / che se ne va da quel tetto di fronte, / mi fa paura non avere forma, / e non esser l’uccello / che vola via improvviso dal suo ramo […] / Tramutarmi in un albero, mio Dio, / platano acero ippocastano o tiglio / o ailanto, in uno di quei bastardi / che su un pugno di terra fanno un regno».

Carpi A. M., E io che intanto parlo. Poesie 1990-2105, Marcos y Marcos, Milano 2016, pp.238, Euro 18.

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