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Archiloco e le schegge dell’esistenza

Archiloco

Figlio di Telesicle e della schiava Enipo, Archiloco (680 a.C.- 645 a.C.) nacque nell’isola di Paro, nelle Cicladi, ed emigrò, povero, a Taso in cerca di una vita migliore, dove partecipò da mercenario alle guerre contro i Traci e le colonie rivali (una battaglia contro i Nassi gli fu fatale), imparò a trasmigrare a Creta, nell’Eubea, nel Ponto, forse in Italia e ne fece pagina di fuoco, di segmento incendiato, di amore raccolto.

Il primo tra tutti i Greci ad eternare l’animo alla profondità, i suoi concittadini ersero in suo onore, come testimoniano le ricerche archeologiche, due monumenti, il primo (Archilòcheion), costruito verso la metà del III secolo a.C., che condensa nelle sue righe il disegno biografico, il secondo, eretto pare verso il 100 a.C., sul quale era stata scolpita una biografia da un certo Demea, un cronachista di Paro.

La biografia di Archiloco è una sponda acerba e violenta («io sono il servo d’Ares signore della guerra / e conosco l’amabile dono delle Muse»), e nel suo frammento la rievocazione assume lo scandaglio della parola e dell’azione che raccolgono figure soldate e coltre musaica.

Proprio tale rievocazione, dalle ricchezze del re Gige alla battaglia di Lelanto, dall’eclissi solare che coinvolse Taso e Paro, iscrivono la gemma archilochea in un frammento incendiario ed esatto.

La dura esistenza, la vista di Magnesia distrutta, la trasmigrazione antenata delle colonie, l’amore sacrale e appassionato per Neobule, figlia di Licambe, recalcitrante a concederla in sposa, cambiarono il corso in un apice di sentimenti contrastanti, amore estremo, amarezza e odio, temperamento furente. A tal proposito, si narra che al suo uccisore, Apollo vietò l’ingresso nel tempio di Delfi con una tagliente scheggia di guerra: «uccidesti il servo delle Muse: esci dal tempio!».

La sua appartenenza alle Muse trovò nel giambo, lontano dalle eleganze sferiche del dattilo, un’agile sospensione di verso, un’impronta scagliata e colpita di lira.

Bruno Gentili sostiene che, per comprendere il ritmo ondulato e pieno di fremiti della sua pagina, è necessario rintracciare Aristotele, il quale «istituisce un discrimine tra le due forme dell’invettiva e della lode (psógos ed épainos), la prima intesa come mímesis delle azioni vili, la seconda delle azioni nobili. La prima delle due categorie aristoteliche è in sostanza identificabile con la nozione del serio-comico, quale è stata elaborata dalle moderne teorie del testo letterario. Uno dei tratti caratteristici di questo tipo di poesia fu l’uso della persona loquens, la tendenza a presentare un personaggio che racconta in prima persona una sua vicenda gioiosa o triste o espone le proprie idee su un tema determinato. Qualche volta le parole messe in bocca al personaggio aprono direttamente il canto. L’artificio, secondo Aristotele, conveniva particolarmente al discorso diffamatorio, nella misura in cui il poeta poteva mascherare la propria identità sotto quella della persona loquens, senza attirare su di sé risentimenti personali. Poteva trattarsi di personaggi fittizi o di figure tipiche o di personaggi reali della città dove il poeta operava».

La più virulenta pioggia di versi non è solo un vertice di rabbia o di subornazione maldicente, non è solo appartenenza alla lancia o crociera di armi o, persino, nembo impazzito. Esiste un cosmo tenero e bendato nella sua visione, come quando si attesta nello stupore della fanciulla, la cui chioma fa ombra sulle spalle o il paesaggio selvaggio di Taso che assomiglia a una schiena d’asino, disperata e contesa che, in uno scontro con i Sai, gli fece perdere lo scudo, come una labile macchia insondabile e mercenaria: «un Saio si fa bello del mio onoratissimo scudo, / che abbandonai tra i rovi contro la mia volontà. / Ma la pelle l’ho slava. E poi, d’uno scudo, che importa? / Al diavolo. Ne rimedierò uno migliore».

Forse un’irrisione di un puro ideale, ma la rivoluzione di Archiloco fu dire “io” alla vita di ventura, alla vocazione sacrificale di fatiche e dolcezze, al coraggio del rischio di ogni lotta, proprio come la lancia che costituisce emblemi e schegge. Laddove il paesaggio saccheggia i suoi scorci, le navi, il mare, le donne, raccolgono il suo diario errante, irrequieto, intravisto nella vita perduta, come testimonia L’epodo di Colonia, in cui compare la «manifestazione di un mondo di quasi edenica libertà sessuale, scena di ribalderia maschilista nei confronti di un’indifesa fanciulla, descrizione di una scena erotica tradizionale (evidenti sono i richiami all’episodio omerico dell’”inganno a Zeus”, Iliade XIV, 159 sgg.), calunnioso attacco contro una famiglia rivale che viene svergognata davanti alla pubblica opinione» (G.Guidorizzi).

Scrive Enzo Manduzzato: «Il merito dei temperamenti portati al cinismo è la mancanza di compiacenza, soprattutto per le proprie virtù. E Archiloco ne aveva. Chi sa parlare al suo cuore con tanto coraggio e a tutti con tanta franchezza non manca di interiorità e di profondità. Archiloco fu probabilmente un uomo leale, capace di amicizia, di fedeltà, di risolutezza. Sa riflettere e concludere con assoluta indipendenza, ascoltando solo le proprie esperienze».

Ma di cosa è fatta la sua esperienza di fuoco e sogno, errante e dolce? Del ritmo della vita, di una invocazione barcollante agli Dei, come la sua barca audace che aveva evitato gli scogli dell’Eubea o del Mar Nero, e a quel mare aveva chiesto affidamento. Egli, randagio di tempeste, mendica il suo nome senza mitologia, anticipando, di fatto, il suo diretto discendente, Cecco Angiolieri, e amando la fiamma dell’invettiva, non esibisce ancora le blasfemie a Zeus onnipotente, capace persino di oscurare il sole con un cenno e di decretare ineluttabilità: «tale è l’animo degli uomini mortali, o Glauco, prole di Leptines, quale è il giorno che Zeus manda su di loro; ed essi nutrono i pensieri, secondo le cose in cui s’imbattono».

Il suo realismo, parola che fa capolino come l’occhio di Ismaele, è in lui categoria nuova. Una categoria scandalosa che, nonostante parli della sua vita e delle sue vicissitudini precipue, sollecita il mondo, con la sua mano sghemba: «Guarda, Glauco; chè già fin dal profondo il mare si sconvolge con ondate, ed attorno alla vetta delle Gire un nembo incombe diritto – segno della tempesta! -, e per la sorpresa ci coglie il terrore».

Il dramma mordace dei rifiuti e dei rinvii, la tessitura erotica dei versi a Neobule evidenzia sempre una partitura guerresca, una sfera quotidiana che tocca l’equivoco, l’ingiuria e la lusinga, l’imprevedibilità rischiosa degli eventi.

Figurato e realistico per aggredire la substantia rerum, il linguaggio archilocheo spunta sentenze e si accende improvvisamente, è capace di dolci spasmi improvvisi e condensarsi, infine, in un monologo di biasimo.

Afferma Dario Del Corno: «Nell’appassionata identificazione del vero con il reale sta la scoperta di una nuova dimensione dello spirito; e questa si trasferisce nell’invenzione di uno stile improntato alle norme dell’economia e dell’evidenza. Tematica ed espressione si combinano in una fusione che ha il carattere della necessità; ed è per questo supremo requisito che,pur nella scarsità dei frammenti rimasti, Archiloco è degno di apparire ai posteri come l’iniziatore di una nuova fase della letteratura, e della civiltà, dei Greci».

Negli Epodi, chiamati così per il metro, l’apostrofe diretta si accompagna alla favola, per colpire con efficacia dura e racchiudere in pochi attimi il suo bersaglio, come con Licambe, traditore di un patto e di un’alleanza e, pertanto, oggetto di riso e scherno, attraverso la metafora della volpa e dell’aquila: «Padre Licambe, cosa avesti in mente? / chi t’ha stravolto il senno / che prima era connesso? Ora fai ridere / per molto tutta la città», «Zeus, padre Zeus, è tuo l’impero del cielo, / tu vedi le opere degli uomini, / empie e rette, e delle fiere ti sta a cuore / la violenza e la giustizia».

Spesso la diffamazione, come sostiene giustamente Gentili «realizza in Archiloco un suo programma di vita e di arte, ispirato a un’etica di ritorsione indiscriminata, che egli stesso a più riprese enuncia». Il suo concetto di giustizia (díke), ammette solo la reciproca partitura, l’equilibrio sociale come bilico di forze. Le briciole dei suoi frammenti, pertanto, occupano la scena delle sue vicissitudini, come dolore e missione, appartenenza alle Muse e fuoco violento. Il supremo giro del suo inchiostro, forgiato dal fato e dalla meraviglia, è uno suono che chiede vendetta per i colpevoli, castigo terribile per il nemico, implora voti estremi nelle infinite sfumature, guarda a Omero, finendo per partecipare alla rudezza della vita.

Alla fine compaiono le peripezie superstiti del cuore, che si scontra con la scoperta della propria individualità allocutiva, che si fa gorgo umano e che, infine, non teme lo scontro, inserendo il mito e la favola, per affermare la pienezza di un’anima contraddittoria ed esposta: « Cuore, mio cuore, turbato da affanni senza rimedio, / sorgi, difenditi, opponendo agli avversari /
il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo, / di fronte a loro; e non ti vantare davanti a tutti, se vinci; / vinto, non gemere, prostrato nella tua casa. / Ma gioisci delle gioie e soffri dei dolori
non troppo: apprendi la regola che gli uomini governa».

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