Print This Post

Caligola e la luna

Albert Camus (1913-1960) elaborò l’opera teatrale “Caligola” in tre diverse versioni dal 1937 al 1958, dando, in maniera esaustiva, corpo e volto a un desiderio inafferrabile. Gli intellettuali contemporanei rividero in questo personaggio dell’antichità l’ombra politica di Hitler, sebbene pian piano adombrata. La libertà dell’uomo trova il suo luogo di verifica alla sommità del potere. Esiste una libertà soddisfatta? È possibile esperire la felicità avendo la luna?. Caligola è un uomo apparentemente completo in quest’opera: l’amore passato e sfinito dal dolore per Drusilla (“Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevamo l’intera speranza del mondo? Come venirne fuori? (scoppia in una risata falsa, artificiosa). Fare un contratto con la propria solitudine, no? Mettersi d’accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un’esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola.”), il potere massimo sulla terra, ma manca sempre qualcosa, manca un’ultima parola definitiva alla sua tensione assoluta: “Ecco cosa mi perseguita. Questo andare oltre (…) Nelle mie notti senza sonno ho incontrato il destino: non puoi immaginare che aria idiota che ha. E monotona…”. E proprio in apertura l’imperatore confessa al suo liberto Elicone il proprio infinito, straziante e inquieto bisogno di felicità attraverso la richiesta della luna: “Tu pensi che io sia folle…Ma io non sono folle e non sono mai stato così ragionevole come ora; semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti…Ora so. Questo mondo così com’è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità o dell’immortalità, insomma di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo”. E poco dopo afferma i motivi della sua dolorosa voglia di vivere  di essere felice, a prescindere dalla morte dell’amata: “ No, no, non è questo; credo di ricordarmi che una donna che amavo qualche giorno fa è morta, ma cos’è l’amore? Poca cosa. Questa morte non è nulla, te lo giuro, è solamente il segno di una verità che mi rende la luna necessaria. È una verità molto semplice, molto chiara, un po’stupida per te, ma difficile da scoprire e pesante da portare”. L’uomo ragionevole e consapevole di sé attesta la verità che struttura il cuore, la sua sete di impossibile, di felicità piena, così insensata, così pura, che i più, compreso il suo liberto, vogliono distogliere. In un’altra scena compare l’analisi di Cherea, il quale dinanzi ai senatori tende a unificare nell’uomo Caligola poesia e potere come elementi che determinano una sorta di disumana ambizione dell’arte a decifrare la conoscenza del destino e della vita come poesia sulla morte: “Attraverso Caligola, per la prima volta nella storia, la poesia provoca l’azione e il sogno la realizza. Lui fa ciò che sogna di fare. Lui trasforma la sua filosofia in cadaveri. Voi dite che è un anarchico. Lui crede di essere un artista. Ma in fondo non c’è differenza. Io sono con voi, con la società. Non perché mi piaccia. Ma perché non sono io ad avere il potere, quindi le vostre ipocrisie e le vostre viltà mi danno maggiore protezione – maggiore sicurezza – delle leggi migliori. Uccidere Caligola è darmi sicurezza. Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercè del caso e dell’assurdo, cioè della poesia. Vedo sui vostri volti risentiti il sudore della paura. Anch’io ho paura. Ma io ho paura di quel lirismo disumano al cui confronto la mia vita non è niente. È questo il mostro che ci divora, ve lo dico io. Se c’è un solo individuo puro, nel male o nel bene, il nostro mondo è in pericolo”. Prima di morire, colpito da una congiura, davanti a uno specchio di solitudine amara avviene il supremo gesto umile di tendere le mani non redente a un Tu assente, a una vita che non si rassegna ma che rimane irrisolta: “Sembra tutto così complicato. Eppure è così semplice. Avessi avuto la luna, o Drusilla, il mondo, la felicità, sarebbe stato diverso. Tu lo sai, Caligola, che potrei essere tenero. La tenerezza! Ma dove trovarne tanta da soddisfare la mia sete? Dove trovare un cuore profondo come un lago? (Comincia a piangere lentamente) Non c’è niente che mi vada bene, né in questo mondo né in quell’altro. Eppure sono certo, ed anche tu lo sei (tende le mani verso lo specchio piangendo), che mi basterebbe l’impossibile. L’impossibile! L’ho cercato ai confini del mondo e di me stesso. Ho teso le mani. (Urlando) tendo le mani e non incontro che te, sempre te, come uno sputo sul mio viso. Te nel chiarore splendido e dolce delle stelle – te in una sera come questa- te che odio. Te che sei per me come una ferita che vorrei strapparmi di dosso con le unghie perché il sangue infetto possa sgorgare con la vita a fiumi”.


Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>