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Co’sang

Le rime di Luchè e N’tò  graffiano a sangue  la pelle lasciando segni profondi. Non si nutrono di luoghi comuni, di storie a buon mercato da offrire in pasto a discografici assatanati e figli di papà alla ricerca di emozioni forti. Parlano del rione e dei pomeriggi pigri passati fuori ai bar o nei circoletti o magari su un Beverly 200 per cercare di cogliere l’essenza di una realtà fugace, lo  sguardo incosciente  e felice  di un bambino che gioca a pallone e la tristezza di madri-ragazzine che si aggirano per i quartieri sventolando i figli come bandiere.
Le rime di Luchè e N’tò sono intrise del sangue versato a fiumi sull’asfalto di un hinterland isolato e violento, di atmosfere melanconiche in cui risuona ancora la voce di Patrizio che canta “Teng’ vint’anne”, un requiem slabbrato e brutale che ti attraversa da parte a parte come una spada affilata, che non ti fa respirare e ti lascia un vuoto dentro. Un vuoto che non ti dà manco la possibilità di riflettere perché ti assale con la sua solitudine. Con le sue frecce mortali imbevute di veleni orientali.
Le rime di Luchè e N’tò  trasformano la nostra periferia nelle favelas di Rio de Janeiro, nei sobborghi del Queens, nei casermoni popolari del Bronx. Altre storie, altre sofferenze.
Creano una simbiosi, una fratellanza immaginaria e “religiosa” tra gli scannati di tutto il mondo, tra i ragazzi che non riescono a vedere, a pensare, possibilità di miglioramenti, di trasformazioni radicali, e portano la loro rabbia per le strade, sotto forma di canzoni, di vite bruciate, di pallottole sparate contro il potere costituito, sordo ai richiami della gente comune che affonda sempre più in un mare di noia e disperazione.

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