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Davide Ferrari. Lo stupore della rosa

Ritratto-di-Davide-Ferrari

Davide Ferrari scrive in dialetto pavese nella variante di  Lardirago, un paese della provincia di Pavia. In questa immersione linguistica vi è la natura della sua forza che, nella sua nuova raccolta Tutte le altre rose[1], edita da Effigie, dopo Dei Pensieri la condensa, edito da Manni, trova nutrimento e grazia, mistero[2] e linfa, in questa dedica alla unicità della rosa, che, come afferma Elisabetta Motta,

«ci suggerisce che occorre lasciare sbocciare la rosa nell’interiorità, nel profondo della propria anima, raccogliere ciò che quella rosa nella sua unicità dice, perché possano fiorire insieme anche i versi poetici. E in questi versi davvero avvertiamo come Davide Ferrari sia un poeta vicino alla natura e sappia contemplarla, ma nello stesso tempo viverla, sentendosi parte di essa, trovando un rapporto con la realtà attraverso la lingua dialettale».[3]

Davide entra, come scrive Franco Loi nella prefazione,

«nel segreto dell’anima della rosa a tal punto che è difficile dire altro oltre ai versi: quando dice delle rose, ne parla come se parlasse degli uomini e delle donne, o degli animali; è un atteggiamento giusto. Non le tratta come un oggetto più o meno decorativo. È proprio come se fosse un essere vivente che gli parla. Perché è davvero così. Il dialetto aiuta la natura a farla sentire viva, aiuta la rosa a sbocciare».[4]

Ma cosa significa penetrare nel linguaggio della natura, senza ornamenti e orpelli? Significa, innanzitutto, entrare nello scavo del mondo, nel segreto e nella nascita delle cose. Il mistero delle cose, dove vive la freschezza più cara, per dirla con Gerard Manley Hopkins, è la luce che irradia e irrora queste pagine.

L’origine delle cose, che era già presente nel battito scansionato della condizione umana, la voce profonda dell’esistente, qui trovano compimento e verità, trasformazione e mutamento.

L’osservazione e lo stupore del vivente riportano all’ispirazione di Gertrude Stein, il precipizio che sanguina, l’autonomia reale degli oggetti di Fransis Ponge, in cui la rosa color porpora sembrava una città, le rose di Shakespeare e di Robert Burns, la rosa di Hildesheim e quella di Modigliani, quelle notturne come ombre rigate dalla luna, l’infanzia pavese che riporta il profumo di ciò che non muore, come quello della masca che porta, dopo le aiuole fiorite, il vivo odore di grappa alle rose, l’epifania improvvisa e ricolma («Un muro di piante in giardino, si vede / solo un’unica rosa venuta fuori / verso l’alto, come la bandiera di un castello / tutto verde pazienza. Ci vuole costanza per / arrivare lontano con niente, basta la luce, / il vento, la voce che dice: qui va tutto bene». [«Un mür ad piänt in dal giardìn, s’veda / ammà un’ünica rösa gnüda föra / in d’l’l alt, me la bandéra d’un castèl / tüt verd pasiensa. G’vör custänsa par / rivà luntän cun gnent, basta la lüs, / al vent, la vus c’la dis: chì va tüt ben»]):

Vi è la letizia afferrabile del mistero, un respiro goloso di gioia, l’incanto e l’ombra, la rosa blu come goccia dal cielo, la marea della memoria e i suoi detriti, la spietatezza disfatta delle parole che si perdono, la completezza di un affido:

«Un’ape lì appoggiata sul verde di un mare smeraldo / con venature da sembrare schiuma come quelle / delle mani e una ad una, adagio, le passa in rassegna. / Chissà che cosa cerca con le zampette tutte storte come le dita / dei marinai intenti a sgarbugliare la rete / rammendo di una natura pelle, un fiore che veglia / dall’alto la navigazione, la vela al sole / tirata dalle stelle» («Un’avia lì pugià in s’al verd d’un mar smeràld / cui venadür chi paran s’ciüma i paran quei d’i män e vüna vüna, piän, ia fa passà. / Chissà s’la cerca cui sampèt tüt tord me i did / d’i marinàr intent a dasgarbià la red / ramènd d’una natùra pel, un fiur ca veglia / in d’l’alt la so navigassión, la vela al su / tira d’i stel»).

Accoglie il tempo, lo scrive, ne narra le fioriture e le variazioni della natura e della storia, diventa radice, richiama il colore della tensione verso il cielo, ne fa un tempio di grazia e di bellezza e infine, coltiva il cuore, senza diaspore, ma con un diapason di aria che incontra le spine, come quelle del Sacro Cuore.

E poi una parola «buna de varcà / tüt i cunfin d’la storia, una reliquia / sula, bütà ad surpresa me una rösa / c’la düra mila an in una prösa» («Una parola capace di varcare / tutti i confini della storia, una reliquia / sola, germogliata di sorpresa come una rosa / che duri mille anni in un’aiuola»), il profumo che non termina, nelle ultimità dell’immondizia, il ricordo di Ersilia, la nascita come genesi di luce e dono, l’amore che indicibile e profondo si porge e commuove fino all’anima, la nudità e il confine dei petali, il nascondimento che non conosce possesso, come una soglia e un compito («mi piace starle vicino, guardarci/ dentro, amarla per intuizione, e nascondermi/ nel braccio per asciugarmi il magone» («am pias a stag arenta, guardàg/ dentar, amàla p’r’intuission, e scundam/ in dal brass par sügà sü al magón»):

«Si diceva che la rosa ha la vista / buona: mangiata dalla morte prima della foglia, / si lascia rosicchiare la pelle dalla malora / imbrigliando in silenzio la paura / di perdere il lavorìo di tutta una vigna / a scavare il tempo con le mani impastate di terra; / stringe il vento e i suoi urti violenti tra le pieghe / della sua testa fiore di fiori, finché / è sfatta e poi sfogliata come la pelle secca / dei moribondi e tutto per poi pigiare / la vita di qualcuno: si fa mordere / dai ragni, li porta spalla a spalla nei brandelli / del suo profumo, un fiato che arriva alle budella / che ti fa venir voglia di piangere per la bellezza / di essere dispersi, inutili come il vento» («S’diseva che la rösa la g’ha vista / buna: mangià d’la mort prima d’la föia, / la s’fa rusgà la pèl ad la malura / ingarbiend in silensi la pagüra / ad pèrd al laurà d’tüta una vigna / a rüspà al temp cui män impastà ad tèra; / la strengia al vent e i so fulón tra i pieg / ad so la tèsta fiur ad fiur, finché / l’è sfaia e pö fulà / la vita d’un queidün: la s’fa sgagnà / d’i ragn, i a porta a spala in d’i brandél / dal so prufüm, un fià fin ai büdel / ca t’fa gni vöia ad piängg ad la belèssa / ad vess dispèrs, inütil, tamme ‘l vent»).

In uno dei testi finali della raccolta, il bagliore della rappresentazione di Ferrari rivela nomi, semenze e fiori, ma il tempo del sogno e della fioritura non lo scegliamo noi, è dato, attende una precisione che non è la nostra, una sostanza di collocazione totalmente Altra:

E in uno dei testi che chiudono la raccolta, è sempre l’ascolto attento della rosa a rivelarci il nostro destino: «Forse solo di notte, con i sogni che passano / negli occhi, siamo come i fiori, vuotate le tasche / dalla rima, i versi, i nomi, siamo davvero / soli, nostra semenza e fiore, / fiorire dietro il muro senza sapere / il perché e con precisione dove». («Forse dumà ad not, cui sogn ch’i passan / in d’i oč, suma me i fiür, svuidà i sacòč / d’la rima, i vers, i num, suna dabón / insi par num, nossa sumensa e fiur, / fiurì dapùs al mür sensa savé / al parchè e cun precisión indè»).

 

[1] Ferrari D., Tutte le altre rose, prefazione di Franco Loi, Effigie, Pavia 2021.

[2] Bagnoli C., Ferrari e Panetta, parole spietate in cerca del mistero (www.ilsussidiario.net/news/letture-ferrari-e-panetta-parole-spietate-in-cerca-del-mistero/2288662/), 8 febbraio 2022.

[3] Motta E., Il dialetto aiuta la rosa a sbocciare, in «Rivista Clandestino» (www.rivistaclandestino.com/il-dialetto-aiuta-la-rosa-a-sbocciare/), 24 gennaio 2022.

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[4] Loi F., Il dialetto aiuta la rosa a sbocciare, in Ferrari D., cit., p.78.