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Erich Fried: l’amore e l’essere

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Il filo che percorre Erich Fried (1921-1989) ha la sottigliezza della profondità. Si appropria della trama elementare per addensarsi e addentrarsi nella percezione sublime, raggiunta, sempre, in una posizione pendolare e libera.
Ebreo austriaco, costretto ad emigrare a Londra, dopo l’occupazione nazista, ha vissuto da subito lo spodestamento sfiorito della terra e della sua coltre oscura, l’ubiquità della coscienza come folla linguistica e movimento oppresso, la memoria come distesa di origine e tempo di antica quiete familiare: «Quando si diventa più vecchi di loro a volte i morti riaffiorano all’improvviso, in un ricordo casuale, o di notte, in un sogno».
Scrive Luigi Forte: «Il poeta Fried ha percorso nazioni e frequentato un saldo luogo di orientamento, la lingua tedesca, senza ritrovare patria né domestico focolare. Lo ribadisce a distanza, anche il titolo di una raccolta del 1978, Cento poesie senza patria, dove è tracciato il confine di una zona privilegiata e protetta da cui poter scrutare il ribollire minaccioso della violenza».
Egli ha bisogno dell’essenzialità scarna e dell’itinerario elementare per celebrare il suo tempio di libertà (Freiheit), di amore e bontà, e sfuggire alla lacerazione di vuoto, per opporsi alla dilatazione di ogni tirannia umana, di ogni bieco razzismo e, infine, di ogni progetto annichilente dell’umano per non dimenticare, come affermò nel cinquantesimo anniversario della presa del potere di Hitler, «che è possibile ricordare questi vecchi misfatti solo combattendo contro nuovi crimini, anche, e per l’appunto, quando si ricopre il ruolo dello scrittore» poiché «Ho sempre creduto che il terrore abbia un margine / dove si può sostare guardando sotto».
Pertanto, scrive Riccarda Novello, su «Poesia» del gennaio 2004, «l’amore inteso come bontà, come atteggiamento esistenziale e modo di rapportarsi agli altri e al mondo non impedì a Fried, come è stato spesso sottolineato di scrivere veementi Zorngedichte, ma l’ira la collera, l’indignazione si stemperarono negli anni Ottanta in un atteggiamento di saggezza e di supremo dominio del proprio tempo e delle proprie risorse fisiche e intellettuali».
Il suo margine di sosta è incalzato e spodestato da un trauma che ha soffocato la sua appartenenza. Esso è divenuto inseguimento nostalgico di attese e del suo principio di speranze, di ciò che ha bisogno di rilucere, nelle odissee e negli svaporamenti della sua «Grande Ira», come ha scritto Hans Mayer.
Le ombre gettate sul presente si appropriano dello spazio assolato che esse stesse germinano, come una trafittura incerta o una fisicità inadeguata di lingua: «Si dice / che il poeta / è uno / che mette insieme / parole / Non è vero / Un poeta / è uno / che le parole / grosso modo / assemblano / se ha fortuna / Se è sfortunato / le parole / lo squartano».
Forse esiste da qualche parte, in qualche sperdutezza lontana, la possibilità rauca di accedere allo spasimo della bellezza, per spodestare gli abissi e la geografia della propria autobiografia: «Qui voglio / prendere coraggio e tentare / di placarmi / e cercarmi / e quasi senza timore perché / io so / di non essere qui».
«Quest’uomo senza patria», commenta ancora Luigi Forte, «non di casa in esilio e comunque estraneo nei luoghi primigeni, da sempre schierato contro l’ingiustizia, non ha mai accolto le false conciliazioni, anche a rischio di sbagliare, accettando il ruolo di un disadattato e le facile accuse di essere un querulo oppositore. Ma tra i suoi versi che danno battaglia, fra le sue testimonianze di coraggio civile (merce ormai introvabile sui mercati del postmoderno) serpeggia piuttosto l’insoddisfazione che egli stesso ha definito «una delle più importanti virtù e forza dinamica della storia». Tale tensione, che è perdurata fino alla morte del poeta, ha anch’essa, radici, nei traumi giovanili; da allora non si è mai allentata: non solo per la forza dell’uomo e la voce dissidente del poeta, ma anche perché patria e origine verso le quali essa ha teso, sono stati irrevocabilmente cancellati».
Il recupero dell’origine ha bisogno di appropriarsi di un’attualità eterna, di un segreto vitale che ferisce e fa vivere ed è l’ultima parola sul mondo, sfuggente e senza tempo, («Prima che io muoia / parlare / una volta ancora / dell’amore / affinchè almeno alcuni dicano: / C’era / ci deve essere») come un sogno lieve o un nutrimento felice («Parlare una volta ancora / della felicità della speranza di felicità / affinchè almeno alcuni chiedano: / Cos’è stato / quando ritornerà?»), parvenza esiziale («Ricordare / è forse / il modo più tormentoso / di dimenticare / e forse / il modo più ragionevole / di lenire / questo tormento») o dramma dell’esistere senza via d’uscita: «Sono fuori di me / quando mi calo in me / e fuori di te / forse anche / E allora / dov’è / il dove? / E dove va? / Mi sono / fatto cuore / con un cuore di Möbius / che / si sfrangia / in tante strisce / senza vie d’uscita».
È l’esperienza che si fa domanda sulla realtà, la riscoperta dell’erotismo come assedio innocente. Forse gioia minima ed elementare o la cifra di una firma immensa che si persegue, e dove la contemplazione e la percezione che si riscopre, nel dono commosso all’altro, diviene «parlare agli uomini / di pace / e pensare a te / Parlare del futuro / e pensare a te / Parlare del diritto alla vita / e pensare a te / Della paura per il prossimo / e pensare a te – / è ipocrisia / o finalmente la verità?».
Declinare le dinamiche affettive, per Fried, significa sfrondarle di ogni miopia, farle brillare come compostezze umane e limpidezze estreme.
È il presentarsi del miracolo che visita, raccoglie l’io inscindibilmente e percorre la vita che tocca il mondo e il suo spirito. Non si tratta della percezione vitale del singolo, ma di una sorpresa che invita e accarezza, come una pienezza che registra la dolcezza di una prospettiva unica e vulnerabile da attraversare: «Attraverso il tuo paese / e attraverso / la mia vita / ma verso te / Verso la tua voce / verso il tuo essere / verso il tuo essere tu».
Il limite perituro dell’essere diventa la forza di un abbandono vissuto che apre gli occhi sul tempo della natura, come un verso spezzato che fiorisce e vive: «E soltanto allora aprire gli occhi / e nei pensieri / soltanto allora vederti / e poi pensarti / e poi di nuovo amarti / e poi di nuovo berti / e poi / vederti sempre più bella / e poi vederti pensare / e pensare / che ti vedo / E vedere che posso pensarti / e sentirti / anche se / per tanto tempo ancora non potrò vederti».
Nel dramma del proprio limite traluce la vivida lucidità mai opaca: «Quando ti bacio / non è solo la tua bocca / non è solo il tuo ombelico / non è solo il tuo grembo / che bacio / io bacio anche le tue domande / e i tuoi desideri / bacio il tuo riflettere / i tuoi dubbi / e il tuo coraggio / il tuo amore per me / e la tua libertà da me / il tuo piede / che è giunto qui / e che di nuovo se ne va / io bacio te / così come sei / e come sarai / domani e oltre / e quando il mio tempo sarà trascorso». Essere testimoni del tempo vissuto e perduto, ferito e spossato, dove brutalità e barbarie hanno avuto padronanza di scena, significa perseguire lo spazio che annulla l’inferno, l’amore che si appropria di sé, la felicità come segno reale e vero di qualcosa di grande che deborda l’essere e respira: «È assurdo / dice la ragione / È quel che è / dice l’amore / È infelicità / dice il calcolo / È nient’altro che dolore / dice la paura / È senza speranza / dice la saggezza / È quel che è / dice l’amore / È ridicolo / dice l’orgoglio / È sconsiderato / dice la prudenza / È impossibile / dice l’esperienza / È quel che è / dice l’amore».
La spontanea raffinatezza di Fried vive di opposti e di rimandi, di ubriacature e di ritorni, si ricollega sempre al bisogno e alla necessarietà composta, in quanto «Un poeta lirico ha il dovere di testimoniare quello che pensa e sente. Nient’altro. Poiché altre persone non sono in linea di principio di costituzione diversa rispetto a quella di un poeta, allora egli, il poeta, può sperare anche di poter dire qualcosa anche ad altre persone con quel che per lui ha un significato e quel che lui stesso ha formulato, nel modo decoroso che è in grado di raggiungere». La sua sovraimpressione ubriaca i lessemi straniandoli, inventa un nuovo stile, imitando e parodiando, richiama il repertorio linguistico attraverso la variazione e la metafora che genera il verso, martellandolo come un battito segmentato e disvelato. La poesia, pertanto, diventa politicamente ancillare, per «lavorare contro l’ottundimento, contro l’assenza di pensieri, di difendersi rispetto all’estraniamento e alla reificazione».
L’intensità affettiva diviene gioia originaria («Ma contro la paura / ti aiuterò / perché la mia gioia di vivere / è ancora lo splendore dei tuoi occhi») e tenerezza scolpita quando si trasforma in gratitudine commossa, incontro («La vita / sarebbe forse / più semplice / se io / non ti avessi incontrata / soltanto non sarebbe la mia vita»), attenzione, comprensione («Essere desto con te / questa è l’ultima vicinanza / l’intrecciarsi / delle speranze senza fine / attraverso cui ci conosciamo»), sconvolgimento e compito, infine, libertà: «Allora respirerò e allargherò le braccia / e sarò di nuovo giovane e pieno di coraggio».
«Scrivendo della vita e della morte», afferma Riccarda Novello, «Erich Fried scrive anche della vita e dell’amore […] egli trae spunto e ispirazione dalla vita reale, dalla vita esperita in tutti i suoi aspetti, e proprio per scrivere testi letterari: senza mai chiudersi in una qualche torre eburnea, il poeta incontra la quotidianità, le persone, gli amici e finanche i nemici, cercando sempre e comunque, instancabilmente, di attivare il Dialogo, la possibilità di comunicare».

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