Print This Post

Gli alibi di Elsa Morante

Elsa-Morante

Alibi di Elsa Morante (1912-1985), pubblicato nel 1958 grazie a Nico Naldini per Longanesi, nello stesso periodo in cui Sandro Penna con Croce e Delizia e Pier Paolo Pasolini con l’Usignolo della Chiesa cattolica emettevano il loro suono prosciugato, ha conosciuto la latenza e l’appannamento, la dimenticanza e l’oblio per trent’anni.

Nel 1990 Cesare Garboli ritornò ad occuparsene, dopo la pubblicazione per Einaudi, sostenendone il respiro e la profondità: «[…] trasudano e respirano stile libero, musica interna, onda e movimento interiore. Il pedale, il piede su cui si appoggia è melodico, è un adagio alla Saba, adagio prosastico, narrativo, informativo, cantato tra il naturale e solfeggiato con la stessa civetteria […] salvo che la Morante scavalca subito le graziucce, sorpassa il lezio, si lascia alle spalle il lamento animale, la voce querula, il fare espiatorio, e anche lo strazio, così novecentesco, di chi sta sempre a riva e parla alle onde. La Morante, anche in poesia, è tentata da Achille; è un Achille che va di persona a trovare la madre, e si tuffa nei flutti, senza pensarci due volte. Si getta nella tempesta, e guadagna il largo con dei versi che sono delle bracciate e dei colpi di remo, avventurandosi in grandi e incaute traversate oceaniche: “ A difficili amori io nacqui”».

La traversata della Morante è il limite incauto di un oro franto. La sua creaturalità, il suo dono senza misura, è perdita, sacrificio, attimo scovato dall’inchiostro, come scrisse nel suo diario nel 1945: «… quando amavo qualcuno io lo difendevo con accanimento, e se era qualcosa di più di una povera bestiola o di una pianta, lo difendevo a costo non solo della mia vita, ma di molto di più, di tutto, perfino della mia poesia. Sì, credilo, ebbi modo di mettermi alla prova: non peccai mai di avarizia, né di viltà, né di grettezza nei riguardi di una cosa amata».

Persino la gatta Minna rappresenta il silenzio di un’enclave confortante, il solfeggio di un’attesa che conosce suono e sguardo, specchio vivente e immagine: «Se penso a quanto di secoli e cose noi due divide, / spaúro. Per me spaúro: ch’essa di ciò nulla sa. / Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro / l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende».

Ed Elsa Morante conosce il segreto delle iridi, l’incantesimo e lo spasmo di un attimo infinito, sparso e vissuto, come afferma ancora Garboli: «Quando ama, la Morante è posseduta da una forza mistica, nemica e divina, che non appartiene all’umano ma a un regno più tenebroso, a un’esperienza misteriosa e animale. L’amore è trattato e vissuto come un male, e insieme come la sola liberazione del male. Come un poeta da lei molto amato, forse più ancora di Saba, come Penna, la Morante s’immerge nella malattia e se ne sparge addosso il fango benefico; e appena può, se la beve a grandi sorsate prendendone forza per sopravvivere».

L’amato che sfavilla nelle sue luci potenti è uno specchio inarrivabile, la perdita sopravvissuta all’invivibile, il tratto sacrificale di un’avventura crudele e gioiosa come genesi.

Il suo alibi è la coltre del respiro dell’altrove, in cui il motore della letteratura spazia in una riva di incantesimi e fantasmi protervi, laddove, come accade in Avventura, lo «spavaldo richiamo d’amore gettato a Luchino Visconti», proclama la sua ebbrezza amorosa di creatura, e tenta l’approdo a un asse attratto ed estremo, ossia ciò che Paolo Milano chiamò «il lirico mistero di cui le vicende umane sono il riflesso».

Scrive Elio Pecora: «Nei velami di un tale mistero si muove l’io che chiama a sé stagioni e gesti, creature e animali. Il respiro è ampio; la visione è circolare; la musica s’impenna, s’estenua, accenna un motivo che a volte si chiude in un sospiro, a volte s’interrompe in un richiamo, in un grido. Ogni verso dice il desiderio di chi, esistendo, vuole esistere di più, assai di più. Fulcro e sorgente di tutto è un sogno, un fantasma, gloria e castigo per tanta poesia moderna: il paradiso iniziale, luogo negato di una totale beatitudine, assoluto di amore e di grazia. Da questo paradiso vengono la promessa e l’attesa di chi si pronuncia, da esso si affacciano le persone amate, i diletti animali, circonfusi di innocenza, brevemente visti e sfiorati, mai veramente accostati e tenuti».

È il sospiro che si fa gemma infranta, tragedia di carne e segmento breve che si allunga sulle cose, per vibrare, per esistere e per declassarsi.

È lo strazio solitario di una preminenza d’amore, abitato dal gemito di un mondo concluso e da una mitologia contraddetta che si fa «coro» o «eco» del suo linguaggio, come l’amuleto che forgia gli inseguimenti del fuoco, in cui la sorte e l’amore promettono di congiungersi: «Quando tu passi, e mi chiami, / assente son io. / Per lunghe ore ti aspetto, / e tu, distratto, voli altrove. / Ma tanto, il mezzano serafico / del nostro amore, / il sultano dello zenit / che muove sul quadrante le sfere / con le dita infingarde e sante, / ha già segnato l’istante / del nostro convegno».

È la porta del Paradiso, inseguito, sognato persino strappato con il fiato tra i denti di un desiderio-diadema che si sparge, e in cui l’amato, come una rosa doppia, occupa il tempo di una consolazione confessata: «Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri / e tanti voti da non sapere quale scegliere. / Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, / se nel tramonto marino balena il raggio verde, / se a cena ho una primizia nella stagione nuova, / o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, / non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, / o parola che m’apri la porta del paradiso».

Altrove è la possibilità di scegliere, come abitare il rinvenimento di una «finzione» di maternità, in cui il suo corpo-ago «è rovente, la tela è fumo»: «Consunta fra i suoi cerchi d’oro / giace la vanesia mano / pur se al gioco di m’ama non m’ama / la risposta celeste / mi fingo».

Quando manifestò il suo interesse per Luchino Visconti, in una nota del 20 settembre 1952, Elsa scrisse: «Ancora un’estate giovane: è finita. Potrei prolungarla di qualche giorno, ma non lo farò. Le dico addio, come dico addio a L. e forse alla giovinezza? Quest’ultimo amore impossibile, doloroso e pazzo, oramai vedo è proprio finito. Dal 1949 fino a oggi ho sempre avuto quel viso nella mente, a sbarrarmi ogni altro pensiero. E adesso. L. mio, caro e diletto (non è colpa tua se non mi amavi), ti dico addio. Non verrò a Venezia; non ti cercherò più: ti eviterò. Addio».

La soggezione che trionfa sulla trasparenza del desiderio trova, in Avventura, un ammicco di assedio e si rende visibile l’ «orgogliosa soggezione di Arturo nei confronti del padre, circondato agli occhi del ragazzo da un mistero inarrivabile che è solo una distratta e infastidita omosessualità» (C. Garboli).

La linea di questa avventura ha, come ha sostenuto acutamente Graziella Bernabò, il carattere ardente e teatrale di una passione trasfigurata, ama avventurarsi e consumarsi, relegarsi alla nascita di amori difficili («Per te, mio santo capriccio, volto divino, / senz’armi e senza bussola sono partita. / non v’è riposo alla speranza mai. / A difficili amori io nacqui»), al segreto del cuore (Segreta, lo so, è la stanza del prezioso cuore ch’io cerco), come una civetta-fenice inesperta che insegue l’annuncio di una camera felice: «Lungo e incerto il viaggio fino al nido / di questa civetta fenice. / inesperta son io, / compagno né guida non ho, / ma giungerò alla camera felice / del mio bell’idolo». È la trama inseguita e irraggiungibile che richiama alle «triplici mura di Sodoma» e alle peripezie senza tregua dell’io poetante, Lisa, che inutilmente si protende al suo oggetto d’amore, leggendario e  mitologico nella sua segretezza e svelamento: «Per la mia pena, per il tuo vinto amore, / con te soltanto un poco giocare io voglio / come una foglia scherza con l’ombra e il sole, / o una ragazza col suo gatto rosso. / E poi ti dirò addio».

Le figure della Morante, da Saruzza, tanto simile alla matrigna di Arturo, Immacolatella, da il gatto Alvaro, a Sheherazade che consola la notte, rappresentano il diadema barbaro di postazioni ancelle e perseguono linee parallele ai romanzi,come un abbandono pieno di pudore.

L’amore che conosce è la sua pronuncia assertiva, la mitopoiesi di una clausola solitaria e incendiata a una diversità consacrata, che accende i suoi splendori a un istante beato, in cui gli ossimori uniscono i loro rapimenti sognati (Tu sei l’ape e sei la rosa. / tu sei la sorte che fa i colori alle ali / e i riccioli ai capelli. / la tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno), l’evocazione di un cambio di nome per collocare l’amore in un altrove decisivo e sanguinante, come un golfo sordo, ma favoloso nel suo imporsi nudo e dimostrato, altero nel suo generoso groviglio, e infine accende lo spazio idolatrato e narcisista, come annota ancora Garboli: «La sua grande capacità d’amare è una generosità zoppa, infelice come il colpevole per definizione, come Edipo. Amare in eccesso, amare troppo è un alibi – alibi che surroga il cuore, e tiene nascosta agli occhi una maledizione e una malformazione. Il seme infetto, la malattia mortale si annida proprio nella capacità di regalarsi alla divinità dell’amore. È la legge della poesia di penna: colui che ama se stesso è portatore di una diversità che lo sfigura, di una vergogna, di una perversione che va tenuta nascosta». L’intonazione declama i miti, li scompone e li sfrangia in un abbigliamento di suono pazzo e cieco, afferrato nelle stanze, proiettato nel futuro di una cantilena capovolta, come una fantastica doglia di gioia e tremore che si solleva dalle arnie fatate, dai lontani narcisi, in cui «La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi / a te è deserto e impostura».

Scrive Graziella Bernabò: «L’amore adorante e disperato, che implica in apparenza una negazione a priori di sé, può essere effettivamente il risultato di un gioco di proiezioni di aspetti propri nell’altro, e quindi può comportare una non uscita reale dall’io. […] Nel caso di Elsa Morante, siamo di fronte però a una realtà amorosa che travalica qualunque consueto meccanismo, poiché il suo amore è indirizzato all’ambiguo per eccellenza: uomo-donna, figlio-madre, ape-rosa».

Ma anche qui la storia si ripete nella sua parete discostata, nella sua memoria di cose non vissute e nel carnale spasmo di un rinnegamento materno. Il figlio che rimane indietro con il suo respiro, con «la proiezione di sé in un fanciullo-figlio e in un fanciullo-madre (C.Garboli)» che aggiorna il suo dramma e riposa in un attimo di madre, per nascere da se stessa: «Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. / Tu sei la notte nera. / Il tuo corpo materno è il mio riposo». 

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>