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I cento passi verso la legalità

Da un bel po’ di tempo Don Luigi Ciotti sta girando l’Italia per l’evento “I cento passi verso il 21 marzo”. Lo abbiamo incontrato nel parco Troisi di San Giovanni a Teduccio, meglio conosciuto come il laghetto. Ad accoglierlo ci sono molti ragazzini delle varie scuole medie e superiori della municipalità, tra queste il Don Bosco, il Livatino, il Cavalvanti, San Giovanni Bosco, la Giotto Monti e l’istituto Opera Pia Famiglia di Maria che con i Tamburi della Pace hanno accolto Don Ciotti suonando l’Inno Nazionale. Presenti anche molti altri personaggi, tra i quali Silvana Fucito, presidente dell’associazione “San Giovanni a Teduccio per la legalità”, il preside della Giotto Monti, Giuseppe Pecoraro, e il presidente della VI municipalità Anna Cozzolino. Il pomeriggio è trascorso in fretta tra canti e spettacoli messi in scena dagli stessi studenti, poi don Ciotti è salito sul palco e ha risposto ad alcune domande che gli sono state poste da un piccolo studente. 

Perché avete scelto il 21 marzo? 

Nel 1992 nella provincia di Palermo a Capaci hanno ucciso il giudice Falcone e i ragazzi della scorta, che hanno un nome: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo, hanno una famiglia, dei figli e delle persone che piangono quell’affetto che non c’è più. Nella strage di via d’Amelio morirono, in seguito ad un attentato, il giudice Borsellino e  anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino CatalanoVincenzo Li MuliWalter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto è Antonino Vullo. Noi ci siamo detti che la prima mafia da combattere è quella delle parole, perché a parole ci sono tutti, tutti parlano di legalità, di giustizia, di pace e di dignità umana, ma poi tutti ritornano al proprio lavoro e noi siamo qui con le nostre speranze e la nostra fatica. Ci siamo resi conto che si ricordavano solo i grandi nomi, ed è giusto che ognuno ricordi le persone care, però centinaia di altre persone che hanno perso i loro cari uccisi dalla violenza criminale mafiosa nessuno si ricordava più. Così abbiamo deciso di mettere insieme a nord, al centro e a sud Italia tanti gruppi, scuole, movimenti e associazioni, tutti insieme, perché quello delle mafie è un problema in Sicilia come in Piemonte, è presente nel Veneto come in Calabria e quando troverete qualcuno che pensa e dice che il problema riguarda la posizione geografica, litigate, perché l’Italia è un paese che deve sentire questa scommessa e questo impegno. Tanto è vero che a Torino è stato ucciso il procuratore capo della repubblica Bruno Caccia, tanto è vero che a Bardonecchia, zona olimpica, è stata commissariata per infiltrazione mafiosa, tanto è vero che nel nord-est si è formata la mafia del Brenta con connessioni alla camorra e alla ndrangheta calabrese, Milano, e provincia, è la quarta città in Italia per confisca dei beni alla mafia, allora non c’è un’area geografica, ma c’è l’Italia che deve riflettere. Mettiamoci insieme, università, associazioni, gruppi e scuole con storie e percorsi diversi, togliamoci le etichette e lavoriamo insieme.

Abbiamo deciso che ci fosse una giornata all’anno in cui si ricordano tutte le vittime, con tutti i nomi, con dignità e abbiamo scelto il primo giorno di primavera, il 21 marzo.

Il primo anno erano 300-400 nomi, quest’anno sentirete più di 900 nomi e ci saranno più di 500 familiari. Troverete per la prima volta dei familiari che arriveranno da diversi paesi europei perché le mafie hanno ucciso anche in altri posti e per la prima volta a Napoli cammineremo insieme, perché è un cammino e non una manifestazione, non è un evento perché l’impegno deve esserci per 365 giorni all’anno. Se fosse un evento io non ci sarei. Nel momento in cui ci stringeremo a tutti quei familiari, vedremo delle persone adulte, papà, mamme, mogli e figli che hanno perso le persone care e cammineremo tutti insieme. L’anno scorso a Bari eravamo in 100000. 

Oggi qui sono presenti tante scuole, il Don Bosco, l’Archimede, il Cavalcanti e il Livatino e volevo ricordare proprio la storia di Livatino, di cui ho conosciuto i genitori. Fu ucciso a 37 anni, un bravo magistrato, figlio unico e la sera che fu ucciso i genitori si chiusero in camera con tanto dolore ma anche tanta dignità. Si è scoperto dopo che andava dal suo capo e chiedeva di avere sempre le pratiche più difficili, ma non per farsi vedere, ma perché era un atto d’amore, perché lui non era sposato, mentre i suoi colleghi avevano moglie e figli. 

Fino ad ora ci sono 50000 giovani che da ogni parte d’Italia si stanno muovendo per venire a Napoli. Ma non si viene a Napoli perché qui ci sono queste macchie grigie, ma si viene per stima e per affetto e soprattutto per dire grazie a questa terra, perché vorrei che nessuno dimenticasse che c’è la camorra e forme di illegalità e corruzione, ma qui ci sono anche delle esperienze, delle realtà e delle persone che fanno scuola di positività. Veniamo qui a Napoli per stima e riconoscenza. 

Perché proprio un sacerdote ha deciso di fondare Libera? 

Ho iniziato a 17 anni. A cambiarmi la vita è stato un uomo sulla strada, con tre cappotti addosso, con la sua disperazione e la sua fatica. Andavo a scuola e quell’uomo era sempre lì sulla sua panchina, mi colpì perché leggeva un libro e lo sottolineava con quelle matite rosse e blu. Un giorno gli offrii un caffè, ma lui non mi rispose e continuò a non rispondermi tutte le volte che glielo offrivo, poi mi raccontò la sua vita. Era un medico, un chirurgo, primario di un ospedale del nord Italia e un momento di imprevisto della sua vita lo aveva portato su quella panchina. Una sera non era di turno in ospedale ma doveva essere reperibile, quella sera successe di tutto, un incidente automobilistico con diversi feriti e una donna che stava male, era la moglie di un suo caro amico, e lui, che tutti hanno confermato che era un uomo che non abusava mai del bere, quella sera in sala operatoria era ubriaco. Non si sa se quella sera aveva sbagliato o se la situazione fosse così grave che in ogni caso non avrebbe potuto fare nulla. La donna morì e lui iniziò ad auto punirsi, colpevolizzarsi e distruggersi. Arrivò a Torino e quella panchina divenne la sua casa. Un giorno mi indicò il bar di fronte e i ragazzi che lo frequentavano, mi disse che prendevano dei farmaci e poi bevevano alcool: si drogavano, e in quei tempi non si parlava di droga in Italia. Mi chiese di far qualcosa per loro, cinque mesi dopo morì e io iniziai a frequentare quel bar e cercai con i miei compagni di fare qualcosa. 

I giovani sono il presente e il futuro dell’Italia, lei come fondatore di Libera quale messaggio vuole mandare a questi giovani che si sentono sempre più stretti nella morsa della mafia? 

L’unico augurio che posso fare è di essere capaci di vivere e non lasciarsi vivere, di non lasciarsi travolgere da contraddizioni, non è facile. Le tentazioni possono essere tante, allora dobbiamo assumerci questa responsabilità e questa voglia. C’è un mondo adulto che deve interrogarsi nei vari ambiti, scuola, politica e ambienti lavorativi, e creare le condizioni perché ci possa essere un cambiamento. 

E speriamo che questo cambiamento sia reale.

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