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L’identità di Luigi Pirandello

Secondo Luigi Pirandello (1867-1936), drammaticamente, la vita si vive o si scrive. La sua tragicomica esistenza sembra confermare questo dubbio: una vita sofferta, dove gli stessi successi cercati spasmodicamente sono immersi in una atmosfera senza conforto, l’uomo frainteso diviso tra recite in società e bisogni di un amore inarrivabile, atteso e violento per Marta Abba, si aprono in una nuova luce di sollievo nell’arte, nel luogo del racconto, nel palcoscenico dove gli uomini reciteranno forse a soggetto o dove i personaggi saranno in cerca d’autore fuori dal caos: ““Io [...] sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Cavusu dagli abitanti di Girgenti (Agrigento), corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.

Incontrare un autore significa presagire il mistero della vita e dell’universo. Pirandello presagisce questa dinamica e questa urgenza, una dinamica che non debba essere solo pensata ma realmente incontrata, che accada realmente nella struggente sete di senso e gusto per la vita. Il punto di riferimento rimane in lui Blaise Pascal, evocato non solo nel titolo di uno dei suoi romanzi più celebri ma comparso in alcune Novelle per un anno, come nel Rimedio o di Sopra e sotto, dove il vecchio professore Sabato riconosce la sua piccolezza e rimira le stelle, sentendo l’inabissamento della sua piccolezza. Lamella gli risponde con l’esperienza, attraverso la sua capacità d’infinito, la sua impronta. Nella celebre novella Ciaula scopre la luna, il protagonista è un lavoratore in miniera che teme solo il buio della notte, si sente “sperduto” nella “sterminata vacuità” di un paesaggio, simbolo della condizione dell’uomo, mutilato alla ricerca del senso del suo esistere. Nel finale della novella viene cantato lo stupore improvviso, la positività celata dietro il negativo, la luminosa Bellezza del cielo che appare maestoso e rivelato.

L’opzione di Pirandello sembra giocarsi sulla penombra del bambino interiore, stupito dinanzi alla realtà, che vive “come nell’imminenza di una rivelazione”. L’arte vera è sempre il grido, il richiamo dell’uomo agli uomini. Anche ne Il Fu Mattia Pascal il viaggio del protagonista è carico di una domanda ultima, sempre inappagata, in una struttura a inclusione in bilico tra identità e sua mancanza fino al mutamento del nome in Adriano che trova la sua Adriana, il suo compimento, la sua finestra aperta a livello affettivo e esistenziale che però presto si chiude: è vittima di un furto e non esistendo all’anagrafe non può denunciarlo, fino al viaggio sterile, pensato nel freddo del suicidio.: “Ma aveva un cuore quell’ombra, e non poteva amare; …aveva un a testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra di una testa”. Il comico che diventa tragico e il personaggio che fa il teatro. Nella controversa e molto studiata adesione al fascismo, in cui egli vedeva la possibilità vera di un teatro di stato, l’unica vera ragione di accostamento, basti ad esempio l’avversione a ogni tirannia ne I Giganti della montagna.

La carriera di drammaturgo di Pirandello, è tuttavia molto particolare. Inizialmente poeta, poi autore di racconti siciliani, e infine a partire da L’esclusa o Il turno, di romanzi, controvoglia, costretto dal suo amico Capuana, già vicino a Verga e De Roberto, che fa riaprire i manoscritti nel cassetto e infine all’approdo agognato e inseguito, raggiunto tardi al teatro. La macchina di Serafino Gubbio coglie le apparenze, ma lui sa che “c’è un oltre in tutto” ma cerca la certezza, il quid pluris che urge in profondità, il suo “spron”, direbbe Leopardi, il punto vivo che le elucubrazioni intellettuali non possono azzerrare: “Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa del miracolo”. Quando a questa umana tensione non accade di imbattersi la realtà si frantuma in briciole, l’io si spezza in centomila aspetti, in maschere apparenti, senza sostanza, come accade a Vitangelo Moscarda davanti allo specchio che riflette l’immagine di uno sconosciuto, in Uno nessuno e centomila.

A Carlo Cavicchioli che lo intervista, Pirandello, nell’ottobre 1936 confessa, a proposito del Lazzaro, punto di svolta della sua poetica e del suo iter esistenziale: “Nel Lazzaro do la risposta pi netta al dissidio fondamentale del mio teatro: Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto”. Certo una fede che seppur perduta, rimane fascino inestinguibile, priva di mediazioni, fede dei semplici e impedita e forse acefala, biblica e veterotestamentaria in perenne confronto con il male.  Scrive don Umberto Colombo: “ Tuttavia mi pare che la peregrinazione di Pirandello di casa in casa, di strada in strada, sia pure un viaggio alla ricerca del bene imprigionato e quasi soffocato dal male: piccole odissee stralciate dallo sterminato mondo, per le quali stanno, segretamente a porto e a rapporto, lontane Itache, intraviste, implicitamente riconosciute: si chiamino terraferma o, come è stato biblicamente proposto, “terra promessa”. Alla fine nel 1938 muore e nel terribile testamento chiede: “ Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo”; poi esige di essere cremato e propone che l’urna con le ceneri venga murata proprio nella campagna del Caos. La disperazione è perenne attesa di qualcosa, immagine di un Oltre non prefigurabile al di là della miseria umana e della terra, della vita con le sue nude maschere: “Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione” e ancora““Perché caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita nell’atto che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare” (L’uomo dal fiore in bocca).

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