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Il cielo di Patrick Kavanagh

L’Irlanda è ponte che colora il cielo con la sua terra, riflette i suoi margini nei declivi del suo tempo.
Patrick Kavanagh (1904-1967) abita i rammagli della sua nazione, come la sua vicina corona di alloro che porta i nomi di Shaw, Yeats, Beckett e Heaney, attraverso la fonte della sua visione d’immagine, la ruvidezza del suo habitus, gli slanci raffinati dei suoi versi nello specchio ampio della terra.
La realtà ridesta la sua immaginazione e la raccolta degli intrecci e dei segni della realtà proiettano in lui un denso fiotto espressivo, con la sua umidità terragna, il suo cerchio d’acqua.
Figlio di un calzolaio-contadino, nasce nella contea di Monaghan a Mucker, laddove «il Dio dell’immaginazione veglia tra le nebbie», isolato nella Dublino letteraria del suo tempo – e spesso colpita satiricamente-, Kavanagh comunica il filo della sua immediatezza attraverso l’essenzialità dell’orizzonte di sguardo, la natura tracciata nei solchi evocativi, il richiamo al desiderio di compimento e la tensione all’ultimità, al nascere e all’emergere della realtà.
Il poeta si situa nell’interstizio delle cose, dà respiro e spazio al tempio dell’inanimato e raccoglie il lembo della voce del passaggio dei paesaggi, che scrutano e autonomamente si accompagnano al destino dell’uomo, con lo scorrere delle stagioni e il ritmo dei tratti: «Mi vedo lì con le gambe incrociate che guardo i campi e i campi guardano a me. Ah, i campi hanno guardato me più di quanto abbia fatto io con loro e tuttora continuano a guardarmi».
L’esistenza si riempie dell’elementarità del suo canto, dello sbocciare di ogni cosa nella bellezza trasparente che ferisce e compie, allontana il nulla e produce il suo gorgoglio di fremiti: «Una strada, un regno che misura un miglio. E sono re / Di terrapieni, pietre e di ogni cosa che sboccia».
I particolari della sua poesia risplendono nel sole che li abita, nel manto dei declivi che ricopre gli occhi di stupore e meraviglia, persino gli infatti remoti e bui: «Che ero incatenato da siepi di biancospino/ Siepi di fattoria e non conoscevo il mondo. / E invece sapevo che la porta d’accesso che l’amore dà/ sulla vita/ è la stessa porta d’accesso, ovunque».
Scrive Saverio Simonelli, nella pregevole antologia uscita per Ancora qualche anno fa: Le siepi di biancospino (…) sono in realtà un oggetto d’amore che diventa a sua volta un tramite amoroso verso una vita più piena e così appagante da far sembrare illusoria la ricerca di altri spazi e, soprattutto, di esperienze ulteriori che siano al di fuori, nel vasto e seducente mondo dei salotti, della cultura, dell’ufficialità.
La sua mistica, segnata anche dal cancro, porta in grembo i segni della disperazione, del dolore e della malattia, ma è una notte che annuncia l’alba.
Il battito della poesia raggiunge le gradazioni della sua intensità e si accompagna all’acqua, al verde e alla vivida affermazione del tempio sacro degli occhi: «Rigogliose di fogliame d’amore le sponde del canale e / l’acqua verde/ Che versa redenzione per me affinchè io faccia / La volontà di Dio, sguazzando nel consueto, nel banale/ Crescendo assieme alla natura così come ho fatto finora».
Lo sguardo di Dio rimette al mondo, accarezza la terra e «versa redenzione», nel paziente silenzio che spazia e spiazza, sorprendendo il cuore e la sua tensione sorgiva, come quando descrive i suoi compaesani che si recano in chiesa per la Messa nella notte di Natale: «Può darsi che parlino del mercato dei tacchini / O di politica estera, ma stanotte / la loro parlata contadina, aspra e schietta / È la melodia degli uccelli di Cristo».
«Il più grande poeta irlandese dopo Yeats» impasta il suo sguardo con la natura, e il paesaggio diviene lo sfondo in cui far affiorare l’anima e l’esperienza: «Ora lascia che si allentino le redini/ I semi oggi volano lontano- / i semi come stelle dentro la nera/ Eternità del fango d’aprile».
La scena che contraddistingue il suo movimento è la nudità delle cose, il richiamo e la rivelazione che la realtà, con la sua meraviglia bellissima e drammatica, ha una consistenza ultima positiva.
Cosa ci rivela questo trasandato e sghembo poeta raffinato? Ci insegna a guardare la trasparenza dell’acqua che il cielo riflette sul corpo vivo della terra.
Le colline di Monaghan sono il suo ponte di fuochi accesi e l’epicentro della sua espressione poetica, imperlata di meraviglia e stupore candido, come una veste sottile che abbraccia l’abisso, come in “Mattino di trebbiatura”, che ripercorre il suo percorso nei campi e a un certo punto: «E mi resi conto, mentre entravo, che avevo / attraversato campi che non erano parte di tenute terrene».
La meraviglia di Kavanagh non è una soglia rafferma o un’estasi facile, ma uno sguardo che si impara e che non si finisce di imparare («Verde, blu, giallo e rosso – / Dio è quaggiù tra paludi e acquitrini, / Sorprendente come Aprile e quasi incredibile il fiorire della / nostra catarsi»), attraverso la fatica del conoscere, di domandare l’essenza perché «Per una crepa troppo ampia non passa alcuna meraviglia».
È una questione di amore e di visione, e quindi di memoria della consistenza ultima: «Potrei avere degli angoli nell’anima dove riecheggia/ La risata dell’alba». Come in un terrapieno di primule a maggio.

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