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Il Concilio tra memoria e profezia, Bettazzi a Capodimonte

 

 

Venerdì 12 dello scorso mese, l’Aula magna della Facoltà Teologica di Capodimonte era piena. Di giovani, di adulti, di presbiteri, tutti venuti per ascoltare un testimone: Monsignor Luigi Bettazzi che parlava del Concilio Vaticano II.

Promosso dagli attivisti di Pax Christi di Napoli e dalla stessa Sezione S. Tommaso d’Aquino della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, l’incontro rientra nelle iniziative per celebrare il cinquantesimo anniversario del Concilio. E Bettazzi è tra i pochissimi testimoni viventi di quel grande evento, che ricorda con nostalgia, ma non rinunciando alla speranza: «Un po’ di nostalgia per il fervore e l’entusiasmo che c’era allora, non solo dentro all’assemblea, ma soprattutto al di fuori, e anche grande speranza perché, se è vero quello che diceva padre Congar – che il grande Concilio verrà completamente capito e attuato solo dopo cinquant’anni –, voglio sperare che l’Anno della fede susciti porti a capire profondamente e attuare il Vaticano II».

Vescovo emerito di Ivrea, Bettazzi è stato per diversi anni presidente nazionale e internazionale di Pax Christi e, negli anni Settanta, scrisse una lettera a Enrico Berlinguer, allora segretario del Partito Comunista Italiano, che fece molto discutere l’opinione pubblica italiana. Ma, prima ancora, aveva scritto al segretario della Democrazia Cristiana (che, all’indomani di una prima Tangentopoli, aveva detto: «Vi meravigliate che facciamo così? In politica tutti fanno così»): «No, allora non dire che sei cristiano, perché il cristiano deve portare in politica la traduzione della sua coerenza con il Vangelo, nella onestà, nella legalità, nell’apertura, nella solidarietà verso i più poveri e disagiati». Questa dovrebbe essere la testimonianza dei laici, aggiunge Monsignor Bettazzi, «e non solo in politica, ma nella vita di tutti i giorni».

Ricordando la sua esperienza di padre conciliare, afferma: «Entrai in Concilio durante la seconda sessione, nell’autunno 1963, una settimana dopo esser stato consacrato vescovo ausiliare del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna. Capii allora che cos’era l’universalità della Chiesa. Incontrai, infatti, confratelli nati e cresciuti in Africa, nell’America Latina, in Asia. Con le loro storie, con le loro culture quei vescovi rendevano il Concilio antropologicamente “ecumenico”. Mi colpì, poi, il dinamismo. Emergevano idee, c’era dibattito, si maturava insieme, passo a passo. I documenti scritti dalle commissioni preparatorie, presiedute da cardinali di Curia, furono sostituiti da testi elaborati dalle nuove commissioni». E prosegue: «Compresi così l’intuizione di papa Giovanni, che volle indire un Concilio non “dogmatico” (per definire, cioè, nuove verità di fede, scomunicando quanti non le avessero accolte), ma “pastorale”, nell’intento di presentare la verità di sempre in modo comprensibile e più facilmente accettabile».

«Cos’è rimasto del Vaticano II? La rivoluzione copernicana contenuta nella Gaudium et spes (non l’umanità per la Chiesa, ma la Chiesa per l’umanità) e quella della Lumen gentium (non i fedeli per la gerarchia, ma la gerarchia per i fedeli) stentano ad affermarsi. Mentre le altre due (il primato della Parola di Dio, esplicitato nella Dei Verbum, e la riforma liturgica, che, grazie alla Sacrosanctum Concilium, è più partecipata di un tempo) sono sostanzialmente riuscite». Forse, aggiunge Monsignor Bettazzi, «le esagerazioni seguite al Sessantotto possono aver indotto a bloccare l’aggiornamento al minimo giuridico, ma credo che ogni cristiano – a incominciare dalla gerarchia nei corrispondenti livelli e poi ogni battezzato e cresimato nei propri ambiti e secondo le proprie capacità – dovrà sentire la responsabilità di recuperare la grazia elargita dallo Spirito nel Concilio, perché quei fermenti possano svilupparsi, allontanando la tentazione di chiudersi nel passato, cosicché man mano il “non ancora” diventi “già”».

Tutto questo, però, non può indurci a volere e nemmeno a pensare a un Concilio Vaticano III: «No, no! Occorre dare pienezza al Vaticano II. Carlo Maria Martini, da gesuita saggio, non parlava di un altro Concilio. Egli diceva: ci si deve incontrare per argomenti di attualità. Ad esempio, la sessualità, la bioetica, la pastorale dei divorziati. I vescovi di tutto il mondo si preparino, vengano a Roma e ci stiano un mese. Su quel tema si discuta e si decida con il papa. Bisognerebbe fare ogni tanto un Sinodo che, però, abbia il carattere del Concilio, non come i Sinodi recenti, organizzati e gestiti troppo dalla Curia Romana… Un Sinodo fatto sollecitando la riflessione attorno a temi specifici, su cui si ascolta il popolo di Dio, si discute e si decide assieme. Lo strumento sinodale è una proposta saggia. Lo pensava Martini, lo penso anch’io».

E lo vorremmo anche noi.

 

 

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