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Il nostro cervello è programmato per farci innamorare di noi stessi

teresa montesarchio cittadelmonteDagli anni settanta ad oggi, tantissime ricerche hanno confermato il valore della mindfulness in quanto pratica in grado di rendere le persone più felici, più serene e più capaci di stare a proprio agio nella propria pelle. Una delle prime pratiche mindfulness che si insegna ai partecipanti ai programmi mindfulness-based è la meditazione Body Scan.

La meditazione Body Scan è semplice nel suo concetto, ma difficile da praticare: consiste nel percepire le proprie sensazioni corporee sospendendo il giudizio, nel riprendere contatto con le sensazioni e le qualità delle sensazioni che il nostro corpo è in grado di provare, senza pensarci e senza valutare quanto quelle esperienze siano gradevoli o meno.

Semplicemente si sente e si è nel momento presente, mentre si sente

E si gode di tutto ciò

Questa capacità di essere consapevoli e spettatori di noi stessi è una capacità specifica che solo gli esseri umani possiedono fra tutti gli esseri viventi conosciuti sulla terra. Solo gli esseri umani hanno la capacità non solo di essere consapevoli delle sensazioni, ma di osservare sé stessi mentre si provano queste sensazioni. Ed il nostro cervello ed il processo evolutivo che l’ha reso così com’è sembrano comunicarci che siamo fatti esattamente per questo:

per vivere e guardarci vivere ed esistere in tutto e con tutto questo

Scienziati e filosofi si interrogano quotidianamente su come questo processo così articolato possa accadere, su come neuroni, impulsi chimici e meccanici presenti nel nostro cervello possano produrre le sensazioni che avvertiamo a livello cosciente e, ancora di più, come sia possibile osservare noi stessi mentre proviamo, viviamo, soffriamo, amiamo. Alcune risposte arrivano da diversi studi, ma nessuno in via definitiva ha potuto svelare il mistero.

Fatto sta che il quesito ha diviso in due il mondo della scienza e della filosofia: c’è chi crede che l’esperienza che facciamo del mondo corrisponda esattamente alla realtà dei fatti e c’è chi crede che l’esperienza del mondo sia soggettiva. Che, ovvero, il rosso che posso vedere io sia diverso dal rosso che puoi vedere tu, pur trattandosi dello stesso rosso e che nessuno dei due, probabilmente, riuscirà a penetrare la rossità insita nell’oggetto che entrambi stiamo guardando, per come è essa veramente.

E c’è chi sostiene che questo sia l’unico modo per conoscere il mondo: nella sintesi fra noi e la realtà, in una sorta di opera d’arte che è l’esperienza cosciente. Non si tratta di un’allucinazione, non si tratta di realtà obiettiva, ma di una sintesi fra questi due: un’opera d’arte, appunto.

Ma perché abbiamo un cervello siffatto? Se in natura tutto ha un fine evolutivo, perché abbiamo un cervello che produce opere d’arte (l’esperienza soggettivamente percepita) e che è, per di più, in grado di osservarsi mentre esperisce quest’arte?

Per dirla con Nicholas Humphrey, professore emerito di psicologia alla London School of Economics e professore del Darwin College di Cambridge, il fine ultimo è quello di nutrire un genuino, disinteressato, limpido amore di sé:

Darwin continuò a trovare difficoltà nello spiegare i caratteri più bizzarri dei rituali di corteggiamento degli animali, finché non arrivò all’idea che queste esibizioni non sono fatte per servire a un fine utilitaristico, ma per esibirsi e sedurre. L’opulenta coda del pavone non gli consente certo di volare più in alto, ma lo fa salire di status agli occhi della femmina. Darwin suggerì che una delle principali funzioni anche dell’arte umana sia di indurre chi guarda ad innamorarsi dell’artista. Quindi viene a proporsi una straordinaria possibilità: la funzione evolutiva dell’arte cerebrale è nientemeno che indurci a innamorarci di noi stessi” (Humphrey, 2015, pag. 93)

Fonti:

  • Humphrey, N. (2015) La grande illusione. Mente&Cervello (128), 88-93
  • Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973